VOLTERRA – Dalle ferite sgorga il sangue. Se ti ferisci vuol dire che sei ancora vivo, se il sangue è rosso la linfa è ancora buona. Ferito non significa certamente morto. E’ ferito per sua natura, per sua stessa indole, per suo intimo dna iconoclasta, l’artista che la vita ferisce e taglia perché incompreso, che l’intorno non capisce a fondo, a pieno, nella sua totalità, sono ferite le città, sono ferite le Nazioni. La ferita è il trampolino, lo slancio, il salto, senza ci sarebbe soltanto cappa e tranquillità, quella serenità ammorbante senza stimoli, quell’ammantare che tutto rende uguale ed i giorni futuri molto simili a quelli passati, senza scarto, senza passaggio, senza limiti da superare. La ferita è la crescita, il sapere che ci si può far male ma che questo sia accettabile, passabile, un piccolo danno per grandi conquiste, piccole sofferenze in cambio di grandi traguardi. Che senza dolore non si attengono soddisfazioni.
E “La Ferita” è il filo rosso, quest’anno ancora di più, che lega gli appuntamenti di Volterra Teatro, dal 21 al 27 luglio con l’evento più atteso, quel “Santo Genet” con gli attori-detenuti. Tutto è nato dal crollo in inverno delle antiche mura della città etrusca. Crollano le città, anche quelle d’arte e millenarie, crollano le strutture ed i governi, crollano le coscienze, crollano le speranze, crollano le aspettative, crolla il futuro. Ma rimane l’arte e rimane, in questo caso, il teatro di Armando Punzo e i suoi che lavorano da ventotto anni all’interno del carcere di Volterra facendo teatro e cultura con attori-detenuti, persone ferite dalla vita che stanno cercando di rimettere a posto i cocci dell’esistenza con fatica e consapevolezza anche grazie a parole antiche e sempre nuove.
Punzo che ancora, chisciotteschianamente, continua a chiedere a gran voce, senza stancarsi mai, un teatro stabile all’interno dell’istituto penitenziario volterrano, o almeno una stabilità, un riconoscimento del fare e produrre teatro di qualità e significati di questi anni. Il rosso che continua a tornare, come le mani in “Mercuzio non vuole morire”, il rosso della bandiera che ci riporta a cortei, rivendicazioni, diritti, unità, solidarietà, vicinanza, il rosso del dolore e delle lacrime che fanno però abbracci, carezze, pelle e calore: “E’ stato un tema inevitabile da trattare per noi – spiega il regista napoletano di nero vestito ma con gli occhiali rossi – un evento drammatico che però ci ha fatto capire una volta di più che Volterra non è una città come le altre ma è una delle città d’arte più importanti al mondo. Abbiamo voluto considerare questa ferita non solamente considerando gli aspetti negativi ma anche le possibilità”.
Trasformare la ferita in bellezza, questo fa l’artista. Senza lasciarsi andare allo sconforto, senza depressione. La ferita è fare comunità, sentirsi, toccarsi, avvicinarci senza paura di condividere il nostro dolore, senza il timore che il dolore altrui ci soffochi o ci abbatta o ci porti nell’abisso, a fondo. In questo clima quest’anno Volterra Teatro si apre al gruppo Archivio Zeta (che hanno sede a Firenzuola e sono gli ideatori delle piece al Cimitero Monumentale Germanico della Futa), al secolo Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni, che hanno coinvolto in un grande progetto di piazza una cinquantina di cittadini (25 luglio) per un evento da ricordare partendo da Giordano Bruno e Leonardo da Vinci, unendo parole e gesti simbolici, come è nella loro storia, trasformando la città ad immagine e somiglianza di un unico grande respiro.
Punzo e Volterra Teatro sono così, danno quel sentore che ci possa essere un domani più radioso, non certo caramelloso o mieloso da Mulino Bianco, ma dove ci si possa guardare negli occhi e capirsi, intuirsi tra simili, tra esseri colmi di poesia e d’infinito e troppo spesso, invece, schiacciati dai lacci del quotidiano, dalle briciole insulse, dalle questioni infime che ci portano via e lontano dalle nostre intime necessità e convinzioni. In questo si installa la “Maratona poetica” del 26 con una trentina di poeti a “ripartire dalle ferite”. Un festival quindi che guarda dentro, molti spettacoli si svolgono dentro le mura carcerarie come se la fortezza non fosse reclusione ma un piccolo borgo di spesse pareti dove spostarsi da uno spazio all’altro in cerca di nuova e fresca arte, un festival che si apre al fuori, all’agorà, alla piazza intesa come condivisione, apertura, corpi che si muovono in un’unica direzione senza però un capocomico che ne limiti i percorsi e le libertà.
Tra gli spettacoli Michela Lucenti ed i Sacchi di Sabbia, la Compagnia Rodisio e Alessandro Bernardeschi, Mario Perrotta con il secondo lavoro su Antonio Ligabue, “Pitùr”, dopo che il primo, lo scorso anno, “Un bes”, fu acclamato e commosse. Il bello di Volterra Teatro è quella pasta sugli spalti, gomito a gomito tra detenuti e pubblico; in quell’attimo si capisce, non percependo alcuna differenza o distanza, la grandezza del progetto, lo stare senza divisioni, anche per poche ore, senza chiedersi chi è l’altro ma guardando la stessa cosa provando le stesse, ognuno declinandole con le proprie modalità, emozioni. Si chiama uguaglianza. Tra gli eventi collaterali di un cartellone vasto la riunione dell’associazione Rete Critica, composta da giornalisti e blogger che scrivono di teatro sul web, la consegna del Premio A.N.C.T., l’associazione nazionale della critica teatrale, la presentazione del libro di Aniello Arena, attore punziano e protagonista della pellicola “Reality” di Matteo Garrone, “Io, attore, fine pena mai” (Rizzoli). Volterra Teatro dura sempre troppo poco.