Recensioni — 11/08/2016 at 11:20

Un Festival che sa affrontare la crisi con coraggio e passione

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ALBENGA (Savona) – Il settimo anno, si sa, è quello della crisi. Lo dicono tutti e lo sceglie come slogan anche la compagnia Kronoteatro per questa nuova edizione del suo Terreni Creativi Festival. Giocato sull’allusione al limone spremuto, giallo sullo sfondo di un cielo così indaco da abbagliare. Il cartellone allude, chissà, ad una fiacca creativa o forse più probabilmente, all’annosa questione di finanziamenti sempre più inadeguati e che richiamano i finanziatori privati, alla responsabilità del sostegno anche economico del fare rete, come si dice. Ma poi, quasi una metafora che si fa sostanza, ecco che il frutto ricompare in tutto il suo intonso splendore ad accendere le serre-location della kermesse e a impreziosire col suo profumo d’estate le lunghe tavolate stile fringe, allestite ad accogliere i tantissimi spettatori, con picchi di 200/230 a serata.

Premio Garrone Radicondoli. Maurizio Sguotti, Tommaso Bianco e l'asessore al turismo del Comune di Albenga
Premio Garrone Radicondoli. Maurizio Sguotti, Tommaso Bianco e l’asessore al turismo del Comune di Albenga Alberto Passino

Appuntamento ormai abituale di inizio agosto ad Albenga, il Festival si articola in un triduo atto a dimostrare come pubblico & teatro sia un connubio non solo auspicabile, ma effettivamente possibile, anche senza bisogno di giocare al ribasso sulla programmazione della proposta artistica. Perfettamente in linea, quindi, con la motivazione del Premio Garrone consegnato giusto qualche giorno prima a Radicondoli a Maurizio Sguotti e Tommaso Bianco, organizzatori del festival. Nella motivazione si legge: “Con un’originale ideazione ha portato il teatro contemporaneo dentro il cuore economico di Albenga – le sue aziende agricole – un modo alternativo di vivere lo spazio teatrale riscoprendo nuove forme di convivialità”.

L'apericena Festival Terreni Creativi
L’apericena Festival Terreni Creativi

Così anche quest’anno, dal 3 al 5 agosto in tre aziende agricole del circondario di Albenga si sono potuti vedere spettacoli anche assai differenti fra loro, e proprio per questo in grado di soddisfare i palati di un pubblico così vasto e solo in minima parte fatto da addetti ai lavori: dal teatro di narrazione di Aleksandros Memetaj al teatro fisico del Teatro dei Venti, fino al teatro danza di Balletto Civile, dallo storygame teatrale della compagnia Sotterraneo, ad un teatro a suo modo di denuncia graffiante eppur giocata con tono lieve e diversamente declinato da Simone Perinelli- Le Viedelfool, gli Omini e i Fratelli Dalla Via.

Una rivelazione, “Albania Casa Mia” per la regia di Giampiero Rappa. Monologo autobiografico scritto e interpretato dallo stesso Aleksandros Memetaj chiamato ad inaugurare il Festival. Uno spettacolo sorprendente, che se inizia un po’ in sordina, svelando, sì, l’indubbia ma in principio timida plasticità attoriale del venticinquenne di Valona, che sembra però indugiare forse un po’ troppo sui ricordi d’asilo di questo bambino, di cui s’intuisce fin da subito solo la doppia identità culturale e linguistica. Ma poi la drammaturgia va in crescendo, quasi a spiegare in filigrana la ragione di quell’indugiare: “E’ proprio all’asilo che nascono i primi conflitti – spiega, prima di puntualizzare – Ecco perché ne parlo.” Fino all’acme del ribaltamento. Sandro bambino nel porto di Brindisi, che parte con la famiglia verso la sua Albania: epopea del ritorno alla mitica terra natia d’oltre Adriatico. E’ lì che avviene il miracolo, e mentre la traversata è raccontata con gli occhi del bambino e parole che sembrano rubate ai viaggi degli emigranti verso l’America – palpitanti d’ingenua poesia e disarmante commozione, come in una certa cinematografia e in “Novecento” di Baricco – con abile gioco di sovrapposizione e sdoppiamento, il punto di vista diventa quello del padre matematico e poi profugo, una volta che l’Albania aprì le frontiere verso l’Occidente.

 Aleksandros Memetaj Albania casa mia
Aleksandros Memetaj Albania casa mia

Così se nella prima parte la voce narrante è quella dell’apolide, la cui forza sta nella liquidità di essere e non essere di quel mondo, in cui pur si è nati o arrivati da così piccoli da potersene considerare figli a tutti gli effetti – come non pensare agli “italiani” e, prima ancora, ai “settentrionali”, di seconda generazione? Subito dopo cede il passo a quella dell’esule, che vede nella nazione straniera quella Terra Promessa capace di restituire libertà, dunque dignità a sé e alla propria discendenza, nonostante le condizioni e i compromessi che impone. Da esistenziale, il discorso si fa politico; e se pure Alessandro Memetti – questo il nome “italianizzato” impostogli dalla suora dell’asilo – non intende farne una questione di questo tipo, è inevitabile, che il tutto si colori dei respiri ampli e accesi di chi ne fa una questione ideale e d’identità. Ma di Nord Est e delle sue problematiche – dei conflitti d’accettazione di quello “straniero”, che per altro rispetto diventa preziosa forza produttiva, per quanto minaccia a un mondo spesso chiuso forse più per incapacità di comprenderlo, che per desiderio d’inglobarlo – parlano anche i Fratelli Dalla Via nella loro “Drammatica Elementare”. È questa l’ambientazione: banchi di una scuola elementare d’antan, Marta e Diego Dalla Via in cattedra, tute arancioni e cappucci neri sul viso che fanno subito Guantanamo e Isis, a commettere un simbolico stillicidio delle lettere dell’alfabeto. Comincia così il loro lungo spettacolo-performance, in cui si cimentano in racconti fatti con parole che iniziano tutte con la stessa lettera e che, spesso e volentieri, dicono di un mondo becero e retrogrado, che fa del pregiudizio il suo assioma e dell’incapacità di guardare oltre il proprio diktat. Non risparmiano nessuna delle presunte autorità corree: dalla Chiesa alle forze dell’ordine, fino allo spaventoso immaginario delle favole dei fratelli Grimm, satiricamente chiamati in causa a punire questi scolaretti biasimevoli, che loro stessi si riveleranno essere.

Indubbie la rigorose capacità mimico-attorali dei fratelli Dalla Via e interessante l’intuizione e il tentativo linguistico – provocazione (dadaista?) -, ma il gioco troppo serrato e prolungato all’infuori di una cornice narrativa ben precisa, finisce col sembrare un pezzo di bravura un po’ fine a se stesso – per non parlare, complice anche il dialetto, delle molteplice licenze, che sono costretti a concedersi, per non trasgredire la regola auto impostasi, che non contempla la non accessorietà di articoli e congiunzioni nella lingua italiana.

Ci scusiamo per il disagio Gli Omini
Ci scusiamo per il disagio Gli Omini

Discorso analogo anche per “Ci scusiamo per il disagio” degli Omini, che, giocando sulla ambivalenza del termine, racconta, in filigrana al disagio da disservizi, di cui spesso sono vittima gli utenti delle ferrovie, quello più esistenziale e psichico. Anche qui una cornice forse solo più ambientale che narrativa e questi stralci di un’umanità surreale, di quelli, in cui si può realmente incappare in stazione, spesso terra dell’oltre, in cui si assiepa il popolo silenzioso degli ultimi. Lo spettacolo è il risultato di una meticolosa opera di raccolta dati di uno studio sociologico portato avanti da Francesco Rotelli, Francesca Sarteanesi, Luca Zacchini, Giulia Zacchini, e portato in scena dai primi tre con indubbia e godibile capacità attorale. Ma non basta questo florilegio di micro episodi, che tornano a riproporsi, intersecandosi col surreale farsi “entità” dell’alto parlante, che sembra alla fine trovare quasi una sua ironia e dunque umanità, nel suo pur sprezzante duettare con i malcapitati. Manca un senso, una visione d’insieme, un qualcosa da portarsi a casa – ipotesi, pensiero o provocazione -, al di là del dejà vu del “Chi paga?” o della variazione sul tema beckettiano dell’aspettare il treno, che puntualmente passa su un altro binario della vita.

Requiem for Pinocchio Simone Perinelli
Requiem for Pinocchio Simone Perinelli

Simile congestione di citazioni, suggestioni e messaggi in “Requiem for Pinocchio” de Leviedelfool scritto, diretto e interpretato da un pantagruelico Simone Perinelli. Non manca l’ arco narrativo anche se è preponderante la bulimia del dire e mettere carne al fuoco, ubriacando l’inerme spettatore soffocato da uno tzunami di imput. Con andamento circolare, il performer rievoca la storia di Pinocchio sotto processo: “Signor P, come si dichiara?” è la domanda della Corte, e questo Pinocchio sgangherato non perde l’occasione per ficcare il dito dritto dentro alla piaga. Si proclama innocente, non perché non abbia effettivamente commesso qualcosa di sbagliato ma perché gli hanno cambiato le regole del gioco, obbligandolo, da pezzo di legno, ad assumere la forma esistente del bambino. “Innocente, Vostro Onore!” rincarando: “Nel mezzo del cammin di nostra vita… fui costretto a lavorare...”, arrivando a dimostrare come questo stato di cose sia “contro natura”, in quanto di fatto depriverebbe l’individuo della propria libertà di espressione, depauperandolo del proprio tempo, missione personale a cui ciascuno è chiamato e, quindi, di sé. Inizia così, questo burattino impertinente, un po’ Carmelo Bene, un po’ Caparezza a intercettare l’uno e l’atro dei due pubblici possibili. È subito evidente che sta parlando dell’artista, di quell’individuo un po’ sognante e un po’ surreale, della cui inabilità all’omologazione tanto si è detto.

Col suo cristallino fanciullesco cita Shakespeare e compara il Paese dei Balocchi al Teatro, luogo senza regole dove tutto è permesso, ma che poi, come il dramma di “Amleto” finisce con una totale ecatombe. “Polonio… morto! Claudio… morto! Ofelia… morta!” e via così fino alla battuta di Woody Allen: “E nemmeno io mi sento troppo bene! […] Ma mi sono così divertito che lo rifarei”, chiosa, né si vergogna di non aver riconsegnato il lecca lecca rubato e neppure delle malefatte fra cui l’ “involontaria” martellata al Grillo Parlante. Senza mai abdicare alla sua natura disarmantemente impunibile, sciorina tutte le parole, che solo al succedaneo di una maschera della Commedia Dell’Arte è concesso dire, in un baccanale carnecialesco, in cui, semel in anno, licet, giocando col topos di una fame alla Arlecchino o Pulcinella quale captatio benevolentiae. “C’è chi occupa case… chi teatri… io ho occupato una balena”, è la provocazione di Geppetto, luci soffuse e atmosfera sgocciolante, scandita dal rintocco di una goccia. E’ da qui che si articola il testamento del falegname al figlio: il senso della vita, in massime più o meno pop, in sottofondo uno struggente Arvo Part, stillato nelle lunghe ore d’ozio col Signor Tonno e che fa di questo requiem un bulimico irriverente atto d’amore al teatro e ai teatranti, attraverso la fisicità performativa, gli accenti, i vocalizzi e la prossemica esplosiva del suo interprete.

Teatro Sotterraneo Il giro del mondo in 80 giorni
Teatro Sotterraneo Il giro del mondo in 80 giorni

Le tre serate, poi, sono state percorse dal fil rouge de “Il giro del mondo in ottanta giorni”. Introdotto, la prima sera, con la complicità del critico e conduttore Rai, il giornalista Graziano Graziani (reduce dalla presentazione del suo saggio “Micronazioni”), si è poi scandito in due puntate da 40 minuti l’una per un totale di 80, come i giorni entro cui Fog scommise sarebbe riuscito a completare il viaggio. Uno storygame teatrale, così è stato definito. In scena Sara Bonaventura e Claudio Cirri, a rimpallarsi tutti i ruoli dei protagonisti del romanzo di Jules Verne; Mattia Tuliozi alla consolle a vista. Di fatto un grande gioco partecipato con tanto di cartellone, carte da gioco, imprevisti, probabilità, interazioni corali col pubblico e diversivi di varia natura. Ben scritto ed efficacemente recitato – non semplicemente “giocato” -, non solo ha il merito di far rispolverare la trama di un romanzo che in molti ricordiamo in modo probabilmente solo sommario, ma, ironizzando su alcuni aspetti dello stile di vita contemporaneo – dalla fretta a un politically correct, che rischia di essere più spesso una trappola linguistica che una scelta consapevole – induce il pubblico a rispecchiarsi; di questo, in fondo, poi forse si ride: del riconoscersi in quelle stesse dinamiche e idiosincrasie.

Simiurgh Teatro dei Venti
Simurgh Teatro dei Venti

Nelle serate anche due spettacoli di teatro fisico e teatro danza con “Simurgh” del Teatro dei Venti e “Before brek” di Balletto Civile. Se il primo ha portato in scena la suggestiva grandiosità di azioni coreografiche, condotte su trampoli da una decina di performer bardati e accuratamente truccati, impeccabili nei movimenti fluidi e finemente cesellati nonostante la precarietà dell’equilibrio, il secondo ha rappresentato una rielaborazione de “La Tempesta” shakespeariana, in cui una coralità di ballerini, ci ha regalato la suggestione dei marosi. Una cima arancio salvataggio, in questo secondo caso, tesa trasversalmente e in modo dinamico, per quasi tutto il tempo in scena, a raccontare della violenza dei flutti e della drammaticità di chi combatte perché quella fune possa restare ultimo spiraglio per i naufraghi. Nel primo caso, invece, la sentita e spettacolare rielaborazione di una leggenda persiana, quale memento, attraverso la metafora del conflitto fra due popoli di uccelli, dell’estremo limite dell’autodistruzione a cui può portare il separazionismo delle dinamiche di prevaricazione.

Peso Piuma Balletto Civile
Peso Piuma Balletto Civile

Questo, in sostanza, quanto offerto agli appassionati di teatro: una riflessione variegata e mai banale sulla contemporaneità, declinata in linguaggi e provocazioni differenti. E se spesso i progetti si sono mostrati, quanto all’idea di fondo, più arditi dell’effettiva realizzazione, qualità della recitazione e accuratezza del confezionamento registico sono sempre riusciti a compensarne le perfettibilità.

E poi musica, nei dj set di fine serata, intrattenimento enogastronomico, convivialità e una cura nell’accoglienza degli spettatori, tali da farli sentire ospiti graditi, invogliandoli a tornare, come il trend di questi primi sette anni testimonia. E, se questa è la crisi… curiosi di partecipare alla prossima edizione.

Visti al Festival Terreni Creativi di Albenga dal 3 al 5 agosto 2016

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