MILANO – La vecchiaia e la solitudine di chi ha vissuto il suo tempo in attesa che la sua vita abbia un fine terreno con la triste consapevolezza di non averla mai attraversata. Raccontare l’umano percorso di un uomo giunto al suo capolinea con una narrazione poetica mediante la rappresentazione teatrale, è una bella sfida che tre giovani artisti si sono posti in essere. Provare ad entrare nell’animo umano di chi ha fatto della propria esistenza una sorta di esperienza anestetizzata, incapace di provare emozioni reali e condivise. Nel 2008, l’antropologo inglese Daniel Miller ha pubblicato uno studio dal titolo: “ Cose che parlano di noi. Un antropologo a casa nostra”. Per quasi due anni è entrato in dodici case di una via di Londra, al fine di capire qual’è il volto dell’umanità dei giorni nostri. Il risultato è in un libro che spiega come gli uomini e le donne (di quel luogo preciso della capitale inglese), si esprimono attraverso gli oggetti da loro posseduti. Una ricerca mirata a comprendere come la loro relazione con oggetti di uso comune, come possono essere quelli domestici (dai libri agli orologi, i mobili e i quadri), e i relativi ruoli che rivestono nello scambio tra le persone. Dodici ritratti di altrettante persone, come quella di George dal titolo “Vuoto”. Un uomo di settantacinquenne che abita in una casa quasi vuota, priva quasi di tutto, scarna nell’arredamento, povera per essere abitata da un uomo da tutta la sua vita. Un vuoto che riflette quello interiore, esistenziale, in solitudine. Nasce da questa indagine: “Homologia” del gruppo Dispensa Barzotti (Torino), lo spettacolo presentato a Generazione Scenario (segnalazione speciale Premio Scenario 2015), creato da Rocco Manfredi, Riccardo Reina, Alessandra Ventrella.
Segnalati dalla Giuria per la «La purezza e la freschezza di una formazione giovane che esprime una profonda coesione di intenti e di prospettiva, l’approdo non scontato a un linguaggio erede della tradizione, per raccontare la solitudine di un anziano in un paesaggio metropolitano osservato con una poesia e trasfigurazione onirica, attraverso uno struggente gioco sul doppio. La sfida di un teatro di silenzio, senza parola che rimanda con semplicità a Beckett, Pinter, Kantor, per cercare una via contemporanea al teatro di figura. Un’epifania lieve unita all’umile consapevolezza di un percorso di studio ancora in fieri». Presentato a Milano al Teatro Litta nelle due serate: “Prime rappresentazioni”, Homologia (la recensione di Francesca Romana Lino) www.rumorscena.com il-teatro-under-35-di-premio-scenario-al-suo-debutto porta sulla scena, un vuoto nero, denso e carico di significati che sembrano provenire dall’inconscio più recondito dell’essere umano, la storia di un uomo di cui si dice: «(…) con George non si riusciva a sfuggire alla conclusione che si trattava di un uomo in attesa del suo tempo sulla terra terminasse, ma che all’età di settantacinque anni non aveva ancora visto la sua vita iniziare. E, quel che è peggio, lo sapeva».
Una vita attorniata dal vuoto di cose e oggetti , corrispondente al vuoto interiore dell’uomo. Gli autori e i due interpreti sulla scena (Rocco Manfredi, Riccardo Reina), la regia è di Alessandra Ventrella, spiegano il senso del loro progetto: «Homologia è allo stesso tempo “studio dell’uomo” e “studio di ciò che si ripete identico”, una visione telescopica che procede dall’uomo in direzione dell’uomo tentandone una radiografia dettagliata». Lo hanno fatto creando un allestimento quasi evanescente immerso in un denso e materico nero, illuminato da luci fioche, quasi un baluginare di piccole fiammelle, capaci di rischiarare a mala pena il viso e un corpo in decadimento, rallentato nei movimenti. Dispensa Barzotti nasce nel 2014 (sono appena apparsi sulla scena, dunque) e con “l’idea di teatro che vorrebbe buttare fuori dalla finestra le etichette in favore dell’immaginazione e dell’inatteso. L’obiettivo che il trio si sta ponendo è quello di esplorare i meccanismi della magia teatrale; una ricerca che si interroghi su come funzioni l’attività percettiva e su cosa sia la percezione: l’illusione e l’incanto, la meraviglia e l’inganno”.
Alessandra Ventrella è originario di Domodossola, Riccardo Reina e Rocco Manfredi sono nati a Parma. Li abbiamo incontrati dopo la rappresentazione a teatro, con l’intento di capire il percorso drammaturgico che li ha portati, prima a scrivere Homologia, e poi a metterlo in scena. Provengono da diverse esperienze: Riccardo è laureato in filosofia, Alessandra e Rocco hanno studiato alla Scuola di teatro Paolo Grassi, drammaturgia. Riccardo per mantenersi agli studi lavorava come maschera al Teatro delle Briciole di Parma (ora sede residente per i tre artisti). Il loro debutto avviene nel 2014 con uno spettacolo di strada : «Dove usavamo i burattini, figure umane, oggetti e quadri, immagini per raccontare una storia. Ogni lavoro artistico ha la sua natura specifica, così come ce l’ha Homologia – spiega Rocco – basato sul rapporto tra animato e inanimato, partendo dalla ricerca antropologica di Daniel Miller. Io (Alessandra, n.d.a) e Riccardo abbiamo discusso su come fare teatro per darci un obiettivo concreto, cercando di sviluppare un’idea che ci permettesse di creare attraverso la scrittura scenica, ispirandoci alla storia di un uomo anziano che ha vissuto senza relazioni, scambi nei rapporti umani. Ci interessava il tema del doppio (concetto che esprime il raddoppiarsi di una realtà e presente nel pensiero filosofico, psicologico e psicoanalitico, ripreso anche nel campo del paranormale e parapsicologico, n.d.a.), e anche quello del Perturbante (termine concettuale utilizzato da Freud per esprimere una particolare attitudine del sentimento più generico della paura, che nasce quando si avverte qualcosa di familiare ed estraneo allo stesso tempo, capace di procurare angoscia o sensazioni di confusione, n.d.a.). Ci siamo basati anche sull’opera di David Linch (regista, sceneggiatore americano, autore di film dalle ambientazioni surrealiste e girato con sequenze cariche di angoscia e oniriche, autore di indagini sui lati più oscuri e intricati della mente umana, n.d.a.)».
In scena appare all’inizio un personaggio solo: l’anziano protagonista, in alcune scene diventano due vecchi per poi, uno di loro, si trasforma in un giovane ma dalle sembianze inanimato. Un manichino. I due non parlano mai. Cosa rappresenta questa scelta?
«Ci interessava il linguaggio muto dello spettacolo mentre abbiamo affidato il sonoro solo agli oggetti di scena che vengono utilizzati (il rumore del giornale, il martello per muovere il manichino), effetti sonori che non derivano dall’essere umano, e le musiche naturalmente, altrettanto importanti per la drammaturgia (BelleOrchestre , gruppo musicale canadese, Étienne Perruchon compositore francese per il teatro e il cinema, Dario Andreoli del Teatro delle Briciole). Abbiamo concentrato la nostra ricerca sulla sensazione di non vita per contrasto e deciso di non animare i corpi umani quanto, invece, di dare vita agli oggetti. Una scelta che ci permettesse di di capire attraverso la ricerca in negativo di cosa noi definiamo qualcosa che poi chiamiamo vita. La storia di un uomo che ha vissuto ma non realmente e alla fine trarre un bilancio di cosa gli resta, il simbolo di una condizione fallimentare. Il dramma dell’uomo che non sa di vivere, se sta vivendo. Da qui la scelta di animare il corpo in scena come se fosse un burattino ma di se stesso però. Il personaggio lo abbiamo voluto creare dandoli delle caratteristiche poetiche di leggerezza, pur sapendo cosa significa il dramma reale che vivono le persone nella loro vecchiaia: questo per evitare il patetico e la retorica che sarebbe stato un errore e il peggior nemico nel rappresentare la nostra idea. Rifarsi al Perturbante per creare i principi e meccanismi teatrali e studiando cosa spiega la Gestalt, ci ha permesso, al contrario, di sezionare cose della vita e favorire una funzione percettiva allo spettatore, che permettesse loro, di vedere cose che non sono reali».
Cosa volevate determinare attraverso queste scelte nella visione degli spettatori?
«Che il pubblico avesse ben chiara la distinzione e che cosa la finzione determina del reale. Ciò che si può vedere perché esiste e ciò che possiamo vedere anche se non è reale. Questo come discorso politico in senso lato perché ci siamo interrogati più che sul potere, su quella che è la sua inerzia che produce; sui meccanismi che ci fanno diventare burattini nella società».