Un’esistenza votata al niente come se fosse normale vivere in una stanza, seduto su una poltrona rossa, vicino ad un tavolino con una lampada che si trasforma in volante. Un uomo in pigiama e pantofole di un rosa improbabile, intento a leggere un libro. Il tutto accompagnato da gesti rituali che amplificano la sua solitudine, voluta ed esibita di un uomo, a cui (pare) non interessa nulla di quello che accade fuori dalla stanza/rifugio in cui alberga. La monotona esistenza viene invaso dall’incursione di un uomo che si rivela essere suo fratello maggiore: logorroico, irruente ed estroverso, disponibile al dialogo; l’altro apatico, silenzioso tanto da apparire come impotente a qualsiasi stimolo. Indifferente alle parole che raccontano una storia paradossale nell’apparire come una proiezione di un viaggio onirico della mente. Racconta che il genitore è finito in uno stato di trance metapsichica irreversibile, sotto un albero in India. In poche parole deceduto.
Presunto o vero che sia non si saprà mai. Non resta che riportarlo a casa ma c’è da spendere del denaro per la salma finita dentro un frigo. Una madre suora laica nel deserto, una sorella che vive nell’Antartide dentro un igloo, esseri umani al limite di una vita su Marte, tanto sono estranee ad ogni sentimento terreno, affettivo e parenterale. Il fratello che non parla e agisce come un automa, completa un quadro surreale in cui è ambientata tutta la vicenda di Soprattutto l’anguria, scritto da Armando Pirozzi, giovane autore napoletano.
La storia ruota intorno ad un uomo fuori da tutte queste dinamiche. Uno al quale scivola via tutto senza mostrare nessuna reazione, nessun sentimento, nessuna emozione. Se il fratello maggiore loquace anche troppo, interpretato da Luca Zacchini, efficace nel suo ruolo, è ben determinato a trovare una soluzione, l’altro personaggio apatico e muto è affidato a Diego Sepe, capace nel riuscire ad esprimere solo con lo sguardo e una mimica strepitosa. Entrambi dotati di una presenza scenica in grado di reggere bene la tensione che si viene a creare. C’è qualcosa di psicoanalitico tra di loro, evocativo, dove il loro mondo è popolato di ricordi del passato rimossi e relegati nell’oblio della mente.
Massimiliano Civica dirige questa storia dando importanza al meta linguaggio che traspare dal testo scritto in forma non drammaturgica consueta. Scorrendo il testo non ci sono le battute intercalate dell’unico personaggio che parla; quanto un discorso senza pause, senza note di regia, senza stacchi. Ma non è un racconto bensì un testo teatrale vero e proprio. L’idea di Civica è di ricreare sulla scena la stessa sensazione di estraniamento colta all’atto della lettura del testo. Un approccio senza la pretesa di interpretare dinamiche così contorte, evidenziate dall’autore, per nulla scontate o facilmente riconducibili ad un giudizio morale e sociale. Il regista crea intorno alla storia, per certi versi surreale, un alone che può essere colto liberamente dallo sguardo esterno nel farsi suggestionare. La “sentenza” sulle responsabilità fratelli/famiglia, non è compito di nessuno.Tutto ciò risulta apprezzabile nell’ottica di un approccio al teatro drammaturgico contemporaneo, dove è necessario lasciare spazio anche allo spettatore, in cui ricercare un senso delle cose viste, selezionando o scartando citazioni e riferimenti riconducibili alla propria visione della vita.
Non deve esserci una spiegazione capace di impedire un’analisi soggettiva di quello che si va a vedere. Massimiliano Civica e i suoi due interpreti, porgono la possibilità di sedersi intorno a loro, assistere ad un dialogo che rimbalza addosso a tutti. Forse ci si aspetterebbe qualcosa di più nell’andamento drammaturgico e registico ad un certo punto; come uno scarto o una nuova rotta, decisa per spezzare la “staticità” che si è creata tra i due in scena. Un’ipotesi non supportata però da un finale che non diventa mai fine per forza. La vita sembra chiederti di svoltare e reagire ma poi ti accorgi, che se nessuno ti ascolta nel mondo, sei solo in mezzo ad un deserto, e la tua voce scompare nel nulla. Un niente e un nessuno destinato a soccombere.
Soprattutto l’anguria
di Armando Pirozzi
uno spettacolo di Massimiliano Civica
con Diego Sepe e Luca Zacchini
impianto illuminotecnico a cura di Gianni Staropoli
produzione esecutiva Ass. Cult. AttoDue
Visto al Festival internazionale di Teatro, Danza e Letteratura Teatro Era di Pontedera, il 20 ottobre 2012