Janina Turek, polacca, morta nel recente 2000, per più di mezzo secolo ha registrato ogni singola azione della sua quotidianità, ogni gesto compiuto, ogni telefonata cui ha risposto o che ha effettuato, ogni regalo ricevuto o fatto, ogni “buongiorno” pronunciato, ogni offerta elargita a messa, ogni frutto esotico mangiato, ogni pasto consumato, ogni passante visto dalla finestra. 748 quaderni di numeri e date, pagine e pagine di inchiostro omogeneo impresso in una grafia impeccabile, dove qualsiasi errore è celato e ricomposto. Date, parole centellinate, caselle e conteggi eletti a morfemi di una vita che si vuole grammaticale, regolare, inquadrabile, risolta.
748 diari privi di racconti, di pensieri e di riflessioni; diari che tacciono sull’impronta digitale di chi li ha compilati strappando invece alla dimenticanza quei dettagli fisiologicamente destinati all’oblio, nel tentativo, forse, di oggettivare la realtà, di delimitarla, di localizzarla.
E se la realtà non fosse solo un montaggio di situazioni, immagini, date, numeri, colori, rumori, odori? Se non fosse la superficie visibile e udibile e tangibile, ma, piuttosto, quell’informe subbuglio che ribolle nelle viscere del sotto-testo facendo capolino, impercettibile, tra un’espressione sensibile e un’altra?
Antonio Tagliarini e Daria Deflorian partono da questi documenti tornati alla luce grazie a un recentissimo reportage del giornalista Mariusz Szczygiel per portare sulla scena di Teatri di Vita una riflessione sul senso di realtà, dal titolo quasi tautologico: Reality
I due interpreti lavorano per scorticamento ed espansione, rimuovendo (metaforicamente parlando) i quadratini di carta incollati sugli errori di trascrizione, intercettando residui organici tra i tratti netti della griglia, ingigantendo il vuoto tra un numero e l’altro, imbastendo ipotesi sulla vita e sui pensieri di Janina a partire dalle cartoline che la donna si inviava da sola. È un lavoro di tipo dialettico, mai pacificato, che sollecita un cortocircuito tra i segni precisi tracciati da Janina, il dolore confessato a piccoli bocconi nelle cartoline, e i pensieri dei due stessi artisti, la loro vita privata. La traccia scenica è data da un susseguirsi di supposizioni e di prove tecniche di rappresentazione delle singole scene immaginate che, per intuizione e invenzione, procedono nel tentativo di ricostruire la storia della casalinga di Cracovia. A essere allargati sono i piccoli tratti, le minuscole occorrenze quotidiane, come un telecomando rotto, una tazza scagliata contro un muro, o episodi di fantasia come il fantomatico incontro della donna con Kantor. Solo in filigrana vengono disseminate notizie sugli eventi cruciali della vita di Janina (il ritorno del marito da Auschwitz, l’abbandono, la vita sotto regime comunista) che si rivelano, in forza di tale assenza, con una potenza ancora maggiore.
Il meccanismo, però, si definisce in termini chiari solo verso la fine, quando si esplicita finalmente l’esistenza di cartoline come punto di partenza di tale complicato lavorìo e dunque solo dopo aver tessuto una trama fragile, continuamente disfatta e ricucita sotto gli occhi di uno spettatore ogni volta ingenuamente convinto di aver assistito a situazioni ricostruite teatralmente, certo, ma su basi documentarie precise.
Non si risolve mai, invece, l’oscillazione tra il piano della rappresentazione e quello della riflessione. Si complica e si arricchisce, piuttosto, laddove sulla traccia di base si innesta una riflessione di secondo grado sulla rappresentabilità della vita reale, sulla riduzione del quotidiano in termini teatrali. Un secondo ordine di ragionamento denunciato subito, in primissima battuta, con un incipit delicatamente comico in cui i due attori, in uno spazio semivuoto, con fari a vista, lavorano alla scena della morte di Janina, condividendo con il pubblico tutte le difficoltà di rendere verosimile una caduta per strada, una morte da infarto occorsa di ritorno dal supermercato dopo aver fatto la spesa.
Bravi entrambi gli attori che restano sempre ancorati al registro della distanza, rifiutando al pubblico scivolamenti emozionali e imponendo anche agli spettatori un forte regime di riflessività. Si conferma insuperabile interprete la Deflorian che, in abiti dal gusto retrò, si destreggia tra le varie stratificazioni proponendo immagini di se stessa in quanto donna, in quanto attrice, e in quanto personaggio, con disinvoltura, senza scarti visibili, appoggiando le varie identità su una rete di microgesti dosati con precisione. Tagliarini, con una mise decisamente moderna, è invece l’elemento perturbante, è il responsabile principale dell’effetto straniante che scatena le crisi nella percezione tenendo lo spettacolo a distanza di sicurezza da derive naturalistiche, è il segnale che pone in allarme lo spettatore rispetto alla adesione ingenua a ciò che vede sul palcoscenico.
Ma ciò che fa di Reality un lavoro di altissima qualità è in primissima istanza la capacità dei due attori/registi di costruire una struttura drammaturgica intrecciando una storia vera a una riflessione sul mezzo teatrale senza scadere nel facile biografismo, per un verso, o nella banale meta-teatralità, per l’altro. Nessuna consequenzialità, nessun impianto metaforico, tra i due livelli di significazione. Il doppio piano di ragionamento su cosa sia il “reale” e su come esso possa essere rappresentato si sviluppa organicamente, senza didascalismi, ma con i mezzi propri del teatro, attraverso tentativi di ordine scenico. È al livello della rappresentazione che si opera per comprendere fino a che punto la realtà stia nella sua ostensione e quanto invece in ciò che vi è di latente, di soggiacente, di nascosto: perché non basta rendere perfettamente in termini fisici la morte per infarto di Janina? Perché non è sufficiente immaginare arance che rotolano fuori dal sacchetto della spesa al momento dell’impatto sull’asfalto? Perché in ciò che vediamo, nella realtà che immaginiamo di racchiudere tutta in una fotografia visibile, non si può udire il respiro che implode, non si può vedere il sangue che smette di fluire, non si può seguire il corso di pensieri che d’improvviso si spengono.
Lo spettacolo si chiude con il riferimento a uno stile di danza balinese in cui la danzatrice rimane dissimulata dietro una sorta di tappeto. Che senso ha danzare dietro un telo che nasconde il corpo, celando la danza stessa alla vista? Lo stesso senso della vita di Janina Turek , lo stesso senso della vita di ciascuno di noi, il senso di una esistenza che fluisce potente e misteriosa rimanendo taciuta dietro segni visibili, dietro gesti concreti, dietro numeri e parole.
Visto a Teatri di Vita, Bologna, il 9/11/2012