È nel nero del fondale da sembrare un infinito luogo dove perdersi che lo scenografo Andrea Viotti ambienta il dramma di un uomo. È Lo straniero. Destinata a soccombere, quasi fosse ineluttabile fare della sua vita un continuo rincorrere la morte. Il Teatro Due di Parma in occasione del centenario della nascita di Albert Camus, ha saputo distinguersi come unica istituzione culturale italiana, nel dedicare alla figura di Albert Camus, l’intero mese di marzo con un nutrito programma di eventi culturali, culminato con la messa in scena de Lo Straniero diretto da Franco Però.
Il vuoto che si viene creare sul palcoscenico disadorno amplifica a dismisura l’incombente tragedia che aleggia sui protagonisti. Il capolavoro di Camus in cui l’autore porta a conoscenza anche se stesso racconta di un rapporto problematico tra madre figlio, un periodo della sua vita trascorsa ad Algeri. Parla di un uomo avvisato della morte della madre, di una fugace relazione con una giovane donna, i rapporti con due uomini , l’uno implicato in traffici poco onesti, l’altro mosso da odio verso il suo cane, e l’epilogo tragico con l’assassinio di un arabo incontrato per caso e l’inevitabile condanna a morte. Il regista Però crea uno spazio metafisico dove muove come pedine Roberto Abbati, Alessandro Averone, Paola De Crescenzo e Michele dé Marchi, su una scacchiera ricoperta da sabbia, quella della spiaggia dove finisce l’esistenza dello Straniero. Accecato dal sole e dall’odio che lo perseguita. La morte lo aveva condotto in quel paese, la morte lo rapirà. I dialoghi sono serrati, taglienti dove emerge prepotentemente l’alienazione dell’uomo interpretato da Alessandro Averone, incapace di distinguere la differenza che intercorre tra la vita e la morte, l’odio dall’amore. Si assiste ai dialoghi tra Meursault (Alessandro Averone) e Syntès, (l’ottimo Roberto Abbati), concitati, febbrili, dove l’azione si svolge interamente intorno ad un tavolo, quasi un ring, dove contendersi a vicenda le proprie ragioni.
Sopra di loro disposti in cerchio e a vista i riflettori sembrano comporre una corona di ferro che rende ancor più cupo l’evolversi della storia. A turno gli attori che non sono impegnati nella recitazione attiva siedono ai lati del palcoscenico, in attesa di essere richiamati dallo scandire delle azioni in cui sono parte in causa. Assistono ad una tragedia in cui loro stessi sono officianti. La luce è calda mediterranea e da il senso dell’atmosfera del paese in cui Camus ambienta il suo capolavoro. Lo Straniero è un uomo che non cerca una via d’uscita per la sua stessa esistenza quasi a dover ammettere di essere un fallito in principio. Basta poco per sottolineare al regista come egli sia in balia, privo di una qualsiasi morale, vittima e carnefice di se stesso. Cerca di affrancarsi dalla vita accettando la pena capitale senza mai cedere ad un sentimento di colpa e di espiazione per il male commesso. Il protagonista si fa avanti sul proscenio per dichiarare al mondo e a se stesso la sua volontà che non verrà scalfita da nessuna forma di pentimento.
L’unico gesto di libertà vero lo fa sentire vivo nel momento di accettare la condanna. Paradossale ma coerente con il suo pensiero. Essenziale nel suo disegno registico Franco Però restituisce bene la tensione drammaturgica insita nel testo senza necessitare di soluzioni sceniche o recitative enfatiche o sopra le righe. La vita scorre via, sembra dirci Camus, ma noi tentiamo disperatamente di fermala cercando di darle un valore. Ma la vita rimane sempre qualcosa di angoscioso o disperante e allora ci inventiamo meravigliose panacee, come l’amore o la rivoluzione e l’una e l’altra si specchiano senza ammirarsi, riconoscendosi a fatica.
Visto al Teatro Due di Parma il 28 marzo 2013
(crediti fotografici di Marco Caselli Nirmal)