BIENTINA – Il titolo sembra uscito da una pornovideoteca. C’era la Zona Cesarini, tutt’ora la famigerata Z.T.L., in quella franca è consentito eludere le regole vigenti. Questa invece è una “Zona Torrida”, ed ha in sé la fine della Cesarini, il non oltrepassare, che ha il sapore di eremo e rifugio, di quella a Traffico Limitato, l’assenza di disciplina della Franca.
Torridi sono gli scambi tra Torquato ed Arniatone, in realtà Carlo Monni il primo, Donato Sannini il secondo, sulla scena Andrea Kaemmerle (stupefacente come in alcuni tratti, espressioni, cadenze, mosse, inflessioni, gesti ricordi il Bozzone di Champs su le Bisance), e Riccardo Goretti nella sua vestaglia leopardata. Tra i due è scattato, grazie all’arte dell’improvvisazione che li accomuna, quella patina, quel quid difficile da spiegare, quel di più che va oltre il testo, il senso, ma che è pura gioia, se non vero godimento e divertimento, di dividere e condividere la scena, un sentimento vero di amicizia e materica sostanza da scambiare per osmosi con uno sguardo, un bargiglio cascante, un attimo frontale. Si fidano l’uno dell’altro, parlano la stessa lingua teatrale.
Donato Sannini, figlio della nota famiglia che produceva il cotto dell’Impruneta, autore, drammaturgo ed attore deceduto nell’85, fece parte della carovana che tentò la via romana attoriale; con lui oltre al Monni, un certo Roberto Benigni e Lucia Poli. Un’allegra brigata che veniva dalla provincia ma che la Capitale aveva schiacciato, rendendola depressa, annerita, ingobbita, incurvata su se stessa. Il purtroppo dimenticato Sannini invece è stato riscoperto dalla casa editrice Titivillus con il bel farcito volume del 2010 curato da Andrea Mancini, “Chi Dio? La poesia? Misteriosamente” con contributi del compianto Nico Garrone, ma anche di Franco Cordelli, lo stesso Benigni, Monni, Laura Morante, la Poli.
In un interno spoglio e scialbo, rattoppato e decadente, tutt’altro che dandy, i due amici annaspano con la vita, il lavoro, le donne. Pance debordanti, pane raffermo, salsicce da mordere. Bukowskyani senz’altro. Un unico passaggio dal tavolo, dove si mangia e si gioca a carte, al letto, dove non si riesce a riposare e dove i sogni sono incancreniti e neri e guasti. Una lingua che oscilla, tra il soggetto e l’aggettivo o tra questi ed il verbo, in un continuo ossimoro tra il vernacolare volgare e grottesco e virale e vitale e squallido con l’arcaico, il vetusto, l’antico, l’altisonante. Ne esce fuori una lingua corposa e ampia, risa e solenne, un affresco con grasse pennellate date con vigoria e pigrizia, talento e cialtroneria fuse insieme a doppia mandata, così tanto incastonate l’una nell’altra da non poterle più riconoscere, da non poter più vederne i confini, i contorni, da dover sospendere il giudizio in bilico tra il dilettantismo e il genio puro.
Uomini che non credono più in loro stessi, gente venuta dalla provincia cercando il grande salto ma senza volersi definitivamente privare delle loro piccole conquiste e certezze; non hanno voluto prostrarsi a Roma o Milano, ma sono rimasti dentro, intimamente sempre arruffatori di giornate, poeti da angoli con il fiasco di rosso, non hanno mai voluto cedere piccoli pezzetti di libertà personale, non hanno voluto scendere a compromessi con il sistema, non hanno voluto sporcarsi né imparare le buone maniere perché secondo loro esisteva soltanto una maniera di stare al mondo, ed era quella di viverlo a pieno, tutto, subito senza doveri o responsabilità da subire. Liberi.
Tra le risate, inevitabili con il duo Kaemmerle-Goretti, un bulgaro comunista e un (forse) discendente della Santa Maria, esplode la rabbia, l’astio, il rancore verso il mondo, l’esistenza, il Partito Socialista, le donne. Quest’ultime diventano il bersaglio prediletto, donne che cercano la grana, l’uomo con i soldi, gli alimenti. Niente è cambiato da allora. Sono Fantozzi e Calimero e Paperino, addosso ai quali si concentrano la rogna e la sfortuna, se non la malattia. Sono acidi bohemian, arrabbiati ed affranti, umorali e scattosi e maschilisti frustrati che non riescono a ribellarsi al loro karma di sconfitta e fallimento e lamentela.
Siamo nel 1984 e c’è la musica a ricordarci quei favolosi anni ruggenti, le melodie colme di disimpegno, i campionati del mondo appena vinti, tutte cose che non scalfiscono l’infelicità dei due autoreclusi, dei due auto-ostaggi di se stessi. Una sorta di Vita Agra debordante di sfoghi rancidi, di mal di pancia amari tra cartelle esattoriali e multe inevase: “Potrei rifarmi ai classici, se solo li avessi letti”. Intanto passa la “Freedom” degli Wham o “Fotoromanza” di Gianna Nannini o “Relax” dei Frankie goes to Hollywood. Armonie facili e ballabili che fanno a cazzotti con il vuoto di futuro che albeggia dentro l’appartamento. Vino e onanismo con la grande diatriba se sia meglio la Simmenthal o la Manzotin.
C’è una crudeltà di fondo in tutto il testo, si respira tra i gingle di Pierino o Lino Banfi, Umberto Smaila e la Fenech. Un mondo che non gli appartiene ed al quale non si prostreranno mai, per questo sono anarchici, per questo non puoi che voler bene a Carlo Monni come ad Andrea Cambi, come a Kaemmerle e Goretti (che indossavano delle autentiche t-shirt appartenute a Carlo e gentilmente regalate dal fedele amico Ettore), sacerdoti di quella religione che fa dello star bene e del godere delle piccole cose semplici il suo arcano mistero. Puri e ingenui che ci vuole un niente, sotto tutto quel burbero, quel misoginismo, quel maschilismo aggressivo, per fargli male, per ferirli. Un abbraccio, di poesia, ci salverà.
“Zona torrida”, di Donato Sannini e Daniele Costantini, adattamento e regia: Andrea Kaemmerle e Riccardo Goretti, con Andrea Kaemmerle, Riccardo Goretti e Adelaide Vitolo, produzione Guascone Teatro. Visto al Teatro delle Sfide di Bientina (Pisa) il 17 gennaio 2014.