“L’inquilino” – di Fabio Banfo – corona la residenza teatrale di Silvia Giulia Mendola al Teatro Franco Parenti di Milano. Dopo “Relazioni pericolose”, nel luglio scorso, e “Marilyn Mon Amour” a novembre, resta solo ancora “Saccarina”. Questo testo – in scena fino al 2 marzo – ci viene presentato da un foglio di sala che cita: “Una commedia amara, cinica e disperata, specchio dei tempi in cui viviamo. I quattro personaggi sono alla deriva nei loro sogni più o meno impossibili.”
Il senso c’è ovviamente, ma poi c’è molto di più in questa drammaturgia contemporanea, quanto mai stratificata e sferzante, che, alla ferocia di battute e personaggi dalla verità quasi urticante – “La morte è una cosa tremenda…”, dice, con intento consolatorio, ad un certo punto, Luca: “La domenica è peggio.” gli risponde, tracheante, Emma fresca di lutto – sa contrapporre – bilanciando – chicche poetiche dalla grazia inaspettata – “Fingo […] – confessa in un suo monologo, Luca, parlando del proprio lavoro – …mentre la mia anima sbadiglia per tutta l’ampiezza del mio orizzonte umano.”. Sono questi, infatti, i personaggi: Luca – un Alberto Onofrietti che raggiunge apici di generosa bravura, specie nelle sequenze introspettive – è un trentenne irrisolto, in balia degli eventi e della sua precarietà, ma prima di tutto delle proprie indecisioni generazionali. Aveva trovato un inquilino, morto durante il trasloco. Così ora si trova a doverne gestire la sorella Emma – una Silvia Giulia Mendola, che sembra non esser nata per nessun’altra ragione se non per recitare… -, venuta a riprenderne le cose. E lui lì, in bilico: fra la fascinazione per questa ragazza spregiudicata e fragile, volutamente anticonvenzionale – “Che fai nella vita?”, le chiede: “Resisto.” è la sua risposta – e la fidanzata – Teresa/Cinzia Spanò: che convince, specie nella dinamica inaspettata con l’agente immobiliare -: quadratissima eppure risucchiata in questo vortice d’instabilità emotiva. E poi c’è lui, l’agente immobiliare: un figuro volutamente disincantato ed un po’ viscido – come lo definisce Teresa – e, per altro rispetto, impersonale. Come gli uomini con la bombetta di “Magritte”, dice di se stesso -, ma che in realtà è il personaggio che, in controcanto alle evoluzioni scomposte di questa generazione di giovani in preda alle loro intermittenze, disegna la parabola drammaturgica.
E’ interpretato da un Corrado Accordino, che, se convince nel ruolo del cinquantenne rampante che non sa arrendersi al tempo che passa – la dice lunga, la squallida teoria del gancio -, ancor più lo risulta in quelle in cui, in fondo, fa da coro, offrendo un diritto di replica alla generazione dei padri, qui chiamata alla gogna. Penso al monologo/confessione o al suo confidarsi con Emma: dove il personaggio ha già cambiato coloritura affettiva e si prepara al soliloquio finale; lucido, eppure estraniato: a restituirci il cannibalistico senso di una generazione disperatamente inferocita e dolorosamente sconnessa, suo malgrado – “A cosa pensi?”, chiede, Teresa a Luca dopo la catastrofe; e lui non sa rispondere di meglio che con un solipsistico ed autoreferenziale: “Sono vivo”. E poi c’è lei, Barbara Cavaleri: una cantante, che, chitarra alla mano, dà corpo ed essenza all’anima nera di Emma. Ne svela le emozioni: quel che si cela, sotto alla sua corazza all’acido solforico; ne amplifica le disperate fragilità. Ce lo suggerisce, questo, il regista: fin da subito dopo il monologo/antefatto di Luca. E’ una sorta di scissione – atomica: embrionale – quella da cui si separano Emma – proiettata, di corsa, in proscenio: a confessarci già, in fondo, lo scacco matto di quel suo amore disperato – e il suo alter ego, che si aggirerà, invece, ad abitare situazioni, che non la vedranno.
(credit fotografici di Attilio Maraschi)
Quasi uno spettro: la silente – eppure struggente – voce narrante. Il contraltare dell’ inquilino; perché se: “L’inquilino non ha un nome. …vive in spazi non suoi. …è un piccolo vampiro. Abita case per un’ora o una stagione e poi rimane nascosto nelle crepe a sognare una vita non che non è la sua.”, lei, al contrario, sustanzia e rende persistente Emma: fino alla fine.
Quel che colpisce è la struttura cinematografica della piéce: non a caso quegli scatti di diapositive, che, forse, ci dicono pure che è il non essersi mai saputi davvero emancipare dal fantasma della propria infanzia, uno dei peccati capitali di questi giovani non-adulti. Ed il regista Fabio Cherstich, sa renderlo con eleganza visiva, ottimizzando la disposizione in affondo dello spazio scenico e giocando efficacemente con luci di taglio ad evocare suggestioni; o smorzati occhi di bue: a mo’ di trasposizione teatrale del primo piano cinematografico. Felici anche certi movimenti scenici, in cui i personaggi sembrano scivolare reciprocamente: in un’ alchimia di rapporti negati. E poi tutta la conflittualità che esplode in azioni e parole, che spesso non fanno sconto alla realtà.
Visto al Teatro Franco Parenti il 19 02 2014