RIMINI – I luoghi di mare andrebbero visti soltanto dal mezzo delle onde. Allora, solo allora, hanno quella calma placida degli occhi stretti e dell’ondulare della barca o del traghetto, del gommone o delle pinne. La sicurezza del porto, la terraferma che accoglie, il richiamo della sirena allo scoglio. Rimini non è da meno. Anzi. Per giunta. Ancora di più. Rimini raccontata da due riminesi che la vita, il mestiere d’attrici, le ha portate lontano per poi, oggi, ritrovarcisi nuovamente.
Dopo la frustrazione dell’allontanamento per la provincia lontana dai centri nevralgici dove si ha l’impressione che succeda sempre tutto, dalle capitali frenetiche tra lustrini ed aperitivi, il ritorno del figliol prodigo alla riscoperta, con un po’ di maturità in più sulle spalle e negli occhi, dei vecchi quartieri e modi di dire, dei personaggi e degli angoli, delle reti da pesca o delle mura dipinte a San Giuliano. Che un paese non è fatto da intonaco e asfalto ma dalle persone che lo hanno vissuto e che oggi continuano ad accarezzarlo, con il vigore della rabbia a volte, con la cura e la dolcezza altre.
Tamara Balducci e Lidia Gennari hanno scelto di raccontarci, tra lacrime e sorrisi, la cittadina di mare di Federico Fellini (plauso a loro il non averlo mai nominato, inutile rivangare gli stereotipi già abbondantemente sottolineati e triti e ammorbanti) con il loro “Rimini Ailoviù”, con le piccole buone pratiche, scardinando l’idea delle discoteche o dei bikini, delle tedesche da rimorchiare e dei vitelloni. Che dal punto di vista dei riminesi appena arriva l’estate o devi lavorare oppure ti senti invaso da orde di turisti che traumatizzano i tuoi luoghi, devastano la memoria, storpiano il panorama, disintegrano la comunità in nome del denaro e del facile, spento, svilito divertimento ad ogni costo. Sette scene, quasi una via crucis verso una sorta di pentimento, un mea culpa di crescita verso le proprie radici e famiglie. Un ricongiungersi.
E quel “Rimini” davanti al titolo forse è anche fuorviante e rimpicciolente, limitante ad imbuto, e fa chiusura. Qui certo si parla della cittadina romagnola ma con uno sguardo che potrebbe legare altre esperienze e vissuti; il tema è trasversale, buono per ogni latitudine. Il troppo grande quando si è piccoli che in un attimo, cede, si spezza, diventando troppo piccolo quando si è grandi. Si chiama adolescenza, insoddisfazione, ricerca, voglia di andare che poi cozza con il desiderio di tornare. La casa, l’accento, le curve di una vita, il sorriso che nasce spontaneo di fronte ad un mattone come davanti ad un angolo ricordando qualcosa a metà strada tra il reale e l’immaginifico, il visto e il sognato tutto ammantato da quella patina di nuvole sbiadite e seppiate chiamate memoria.
Alcuni quadri hanno il limite di non avere una precisa collocazione all’interno del ragionamento iniziale, quello di raccontare una Rimini sconosciuta. Ma l’atmosfera, anche aiutata dai video alle loro spalle, rimane metaforica e astratta allontanandosi dai luoghi comuni, il mare d’inverno oppure la mucillagine, alludendo a quel concetto di provincialismo troppo spesso abbinato ad un significato negativo. L’Italia è provinciale, al di là del bieco campanilismo, ogni paese ha i suoi riferimenti storici e detti e usanze e dialetto.
Storie di amori che mitigano l’idea dell’infallibilità del macho latino che va sempre a colpo sicuro, un bambino che cammina sulle macerie del teatro cittadino che da settant’anni aspetta di essere ristrutturato, un amore parigino cercando quello che la gigantesca metropoli può offrire, la straniera che racconta alla famiglia in Romania di lavorare come impiegata ed invece il suo vero ufficio è sul marciapiede, un amore nato in trincea tra lettere cariche di pathos senza mai essersi visti, la vicenda di Alioù, ragazzo tunisino che ha trovato una nuova strada proprio a Rimini, in Italia, luoghi dai quali molti vogliono fuggire.
L’immagine simbolo rimane il Grattacielo sullo sfondo, il palazzone, adesso abitato da extracomunitari, di trenta piani- cazzotto nell’occhio tra la stazione ed il mare, spot di un’architettura bieca, non solo italiana, un cementificare distratto e senza una logica, ed in primo piano il Ponte di Tiberio. Ecco la cartolina dell’Italia: il vecchio che è antico ed il nuovo deturpante ma carico di vita, di energie fresche.
“Rimini Ailoviù”, scritto, diretto e interpretato da Tamara Balducci e Linda Gennari. Riprese video: Ilaria Scarpa, Nicola Sorcinelli. Montaggio video: Ilaria Scarpa, Antonio Labbro Francia. Proiezioni video: Giacomo De Luca. Disegno luci: Giuseppe Filipponio. Musiche: Marco Mantovani. Visto al Teatro degli Atti, Rimini, il 25 febbraio 2014.