MANTOVA – La prima, prima della prima. Lo spettacolo non è cominciato ma è come se per l’attore non s’interrompesse mai. E’ una finestra sul cortile, sul tempo trascorso nelle stanze segrete del tempio, ad ascoltare tutta la vita in preparazione di ciò che accadrà, tutto il magma che ribolle prima di farsi lava ed essere gettata, come pece bollente, da un palco verso la platea, dalla luce all’ombra. Un attore cammina, attraversa la scena di assi di legno che qui ed ora scricchiolano, fanno un rumore antico, di storia, di polvere, di vita rappresa.
Fa impressione un teatro senza pubblico, sembra di profanarlo, di violentarlo, di stuprarlo, aprirlo prima che sia pronto ad accoglierti. Atmosfera pia e sacra e sacrilega da spia, camminare piano, parlare piano, ascoltare tutti gli ingranaggi che si assestano, che cercano la posizione più comoda. E tutto pare fermo, immobile e morto, ma tutto è vivo, s’agita impercettibilmente, le viti, i dadi, i bulloni, i velluti, le luci basse. Ci sono spifferi e spiriti in quest’immenso salone immerso nel Tempo, con questo vago e fluido rosso come un imbrunire, sbiadito, sfocato come la foschia sui laghi mantovani.
Uno spettatore alla volta che entra nel “Privato” dell’attore, che si appropria, in punta di piedi, del suo camerino, che respira il suo spazio, che si fa voyeur morboso, assiste alla vestizione, alla perdita dei connotati della persona, all’impadronirsi del personaggio che tutto l’intorno si mangia, fagocita. Mentre l’attore continua la sua preparazione, ogni dieci minuti lo spettatore cambia. E non è una parte in loop ma un continuum come se lo spettatore fosse uno solo, anzi come se l’astante non ci fosse, non esistesse. Per questo non c’è interazione né scambio perché noi lì in quel momento non esistiamo fisicamente.
Siamo l’incorporeità di ogni pagine scritta su carta e riportata dalla voce degli attori. Siamo ammessi al rituale, siamo presenze invisibili. Alessandro Pezzali, sottile e leggero quasi etereo e immateriale nella sua figura slanciata e nera le pupille grandi, si sistema meticolosamente. Davanti a lui uno specchio. Siamo ospiti inattesi ed indesiderati ma il protagonista non ci degna di uno sguardo. Noi non siamo mentre lui è in piena trasformazione. Da bozzolo a farfalla, da comune mortale ad elettrico, eccitante immortale. Una metamorfosi kafkiana, al contrario.
Nello specchio ci sono i silenzi ed i dubbi, le rinunce ed i pensieri, i ritorni e gli smacchi, il passato che si annulla per arrivare proprio a quel momento di verità. L’attore adesso è solo con se stesso, le voci ed i rumori della vita banale giù in strada si attutiscono, si annullano, qui si sta già creando magia, alchimia. Ascolta il vuoto, cerca nel fondo dei propri occhi, scava, scruta la scorza, è paziente, sente, inganna, aspetta, ingabbia, fa memoria, ricerca, pensa, s’appunta mentalmente, fissa un punto preciso non terreno. Dove è in questo momento non è dato saperlo. In un luogo della mente. Noi non siamo lì, lui è altrove. Si arriccia le mani.
C’è un attimo di crack, di incrocio, di tempesta, di click, di giro di boa. La persona ha lasciato gli ormeggi, ogni minuto è un perdere alle proprie spalle il proprio ieri e confrontarsi, ritrovandosi, con l’amico-nemico che gli alberga dentro. Essere ventiquattro su ventiquattro attore sarebbe distruttivo, devastante, faticoso, forse impossibile, ma lo stacco con il reale rende ogni volta imperscrutabili le vie per tornare a quell’oasi, a quel verde accecante lontano da tutto il grigio dei giorni che si assommano nella quotidianità spicciola. Forse l’attore vive solo quando è sul palco, quando ha la possibilità di non essere se stesso, oppure, anzi, il suo vero se stesso non è l’anagrafe ma ogni volta il personaggio calcato sulla sua pelle, il ruolo tatuatogli addosso. Siamo stati ammessi nella sua chiesa, nella sua cripta prima dello sbocciare.
Qualche battuta smozzicata, sillabe mangiucchiate: cosa si muove lì dentro il suo sterno? Cosa s’infrange e contorce? Non possiamo arrivarci nemmeno da questa posizione privilegiata. Una situazione di solitudine estrema, le mani in faccia a premere i polpastrelli sulle orbite come per aprire la scatola, far fuoriuscire il veleno. Occhi negli occhi con se stesso in questo angolo di mondo che il mondo non considera, in questa bolla di sapone fragile e delicata, in questa parentesi con mille frasi relative al suo interno. Ora si accascia, si appisola, si schiarisce la voce. E’ un fermento interiore.
Dondola, il fiato contro il legno. Siamo nel suo carcere, nella sua cella dove volontariamente si è autorecluso o non poteva fare a meno di esserne prigioniero. Siamo nei minuti prima dell’esecuzione, prima della morte della persona, prima della resurrezione sul palco. E’ una trance. Ripete le parole come mantra, le sottolinea in questa preghiera. Ora è dentro, come se cercasse una nuova voce per darla in pasto alla fiera che abbaia sotto pelle. Fuori la vita ciondola. Qui il tempo ha ali profonde, latitudini espanse, grovigli con nodi da non sciogliere. Che fare l’attore non è un mestiere come un altro. Ci vuole la vocazione, estrema dedizione.
“Privato”, produzione Teatro Magro. Ideazione e regia: Flavio Cortellazzi. Interpretazione: Alessandro Pezzali. Visto al “Luoghi Comuni Festival”, Mantova, camerini del Teatro Sociale, il 14 marzo 2014.