Qualcosa si muove nel trentennale eduardiano. Dalla sfida rinnovata di Servillo, al demone che si è impossessato di Fausto Russo Alesi nel suo assolo di Natale in casa Cupiello, il passo è più breve di quanto non si immagini. Vengono da dentro le voci di questo affresco cupo e solitario, di questo cantiere scalcinato, in cui l’attore unico protagonista indossa un casco da operaio con generosa dichiarazione di intenti nei confronti dell’officina eduardiana. Un piano inclinato, scarno, coperto dalla polvere e da radi oggetti che scaturiscono come reperti archeologici da una campitura ossuta, quasi radi fossili di un teatro antico, a rischio evidente di scomparsa.
È tutta in questa intuizione la grandezza di Fausto Russo Alesi. C’è un allarme in quella quinta desolata che non può trovare riscatto se non nell’umiltà di un interprete che prenda coscienziosamente, e audacemente al contempo, sulle proprie spalle il fardello ingombrante e necessario della nostra tradizione teatrale più autentica. Il rischio, naturalmente, è quello della più bieca incomprensione, come nel caso, tra gli altri, della spettatrice che, al Teatro Gobetti di Torino, interrompe, ad un tratto, la rappresentazione, urlando il proprio disagio con la formula grottesca: «Vergogna! Questo non è Eduardo» e facendo inconsapevolmente il migliore dei complimenti a Russo Alesi che la apostrofa con straniamento tutto eduardiano: «Cuncettè pe’ cchesta ce vole ‘o revolvèr!». Già, questo per fortuna non è Eduardo, è molto altro e molto di più di una rilettura pedissequa della mitografia eduardiana.
E lo è proprio nel nome di una fedeltà al testo. Una fedeltà destinata a tradursi in una performance drammatica a tutto campo, in cui non si dà il minimo spazio ai momenti narrativi, epici, che potrebbero costituire un’uscita confortante per l’attore. Quella cui si assiste è piuttosto una possessione sciamanica, una trance rituale, capace di convocare nell’impeto della propria escursione vertiginosa, persino le didascalie, come recitativi all’insegna di un efficace incantamento.
Il lavoro interpretativo di Russo Alesi, crediamo di poter dire (sulla scorta di quanto lo stesso attore afferma nel libretto di sala, quando parla dell’edizione del 1977 come di una: «edizione di riferimento imprescindibile»), nasce dall’abisso dolente e nervoso dell’esempio di Pupella Maggio. Da quella postura ripiegata su se stessa, da quel buco, da quella bocca dell’anima spalancata sul limite intorpidito di una morte “che si sconta vivendo”, già a partire dall’inutile invito a svegliarsi rivolto al marito.
Luca Cupiello è ritratto, invece, con piccoli tocchi, gli occhi coperti dalle mani che impediscono di vedere il mondo, cui si preferisce sempre la sagoma polverosa del presepio, disegnata con rapidi colpi di pennello da Russo Alesi, che tratteggia silhouettes aeree e nebulose. Come a dire: la stessa scena è il presepio e, accettare la sfida di Eduardo, significa non sottrarsi a quella rappresentazione invisibile, rischiosa, priva di punti di appoggio, anzi destinata presto a collassare. In questo senso, nel rappresentarsi talora come statuaria presenza di un mondo trasognato, figurina trasognata di un fugace tableau vivant, Russo Alesi denuncia la solitudine dei personaggi, costretti a un monologo impietoso, costipati in un universo concentrazionario disegnato dal lampadario che come un compasso, misurando lo spazio in cerchi sempre più asfittici, chiude ogni possibilità di fuga prima di esplodere, abbagliante piccolo falò delle ultime illusioni.
Nessun trauma è d’altra parte eluso. Lo scontro generazionale trova nuovo vigore nella straordinaria intuizione alesiana di un Tommasino omosessuale che, lungi dal rappresentare una forzatura, aggiunge maggiore spessore alla distanza incolmabile da quel padre stordito assente e da quella madre con «i calzoni».
La morte del finale arriva amarissima, con il senso di una perdita immedicabile, di una frattura. Sulla portata politica dello spettacolo, Alesi insiste nel libretto di sala, cogliendone la caratura, ben oltre la contingenza storica che lo produsse.
Qualcosa è dunque successo. Uno strappo si è consumato nella già rapsodica tradizione drammaturgica italiana, stretta ora tra la débâcle dell’establishment dei teatri ufficiali e la contestazione spesso effimera dei teatri occupati. Ed è significativo, a tal riguardo, che questo progetto nasca nel segno di quello stesso Piccolo teatro che ha concorso alle Voci di dentro della reinterpretazione servilliana. Significativo, da parte di uno Stabile talora distratto circa le proprie responsabilità rispetto alla nuova drammaturgia italiana. Significativo di una volontà di opporre resistenza alla marea montante del nulla magmatico, sperimentale, di regia e di presunta antiregia, che, nel caos capzioso del presente, diserta il cantiere della nostra tradizione drammaturgica.
Tuttavia il cantiere è sempre lì, con il proprio magico bric-à-brac, con i propri spazi impervi, ma a disposizione di maestranze coraggiose. Come questa.
Natale in casa Cupiello
di Eduardo De Filippo
adattamento e regia di Fausto Russo Alesi
scene Marco Rossi
luci Claudio De Pace
musiche Giovanni Vitaletti
con Fausto Russo Alesi
in tournée