CLUJ – Pontedera Teatro in questi quarant’anni di attività ha intessuto derivazioni e linfa vitale in Polonia, grotoskiani della prima ora, in Brasile, con il popolare attore Cacà Carvalho, ed in Romania dove Roberto Bacci qualche stagione fa mise in scena un “Amleto” su impalcature e rotelle e fendenti di scherma. Dopo “Idiotul”, da Dostoevskij, per la regia di Anna Stigsgaard, gravitante sul Teatro Era e dintorni (suo il “Lisboa” di biciclette e raggi e ruote e cadute), ha trovato casa e spazio “Il giardino dei ciliegi” cechoviano allestito nel Teatro Nazionale di Cluj, nel nord della terra che fu trafitta da Ceausescu, vicino al confine con l’Ungheria. Bacci ed il suo staff, Stefano Geraci (con il quale prepareranno un “Memorie del sottosuolo” per la prossima stagione) per l’adattamento e la riduzione, Francesco Puleo per l’assistenza alla regia, avevano chiesto ai quasi mille spettatori del debutto (standing ovation finale, molto partecipata e sentita) di vestirsi con almeno un capo d’abbigliamento bianco.
E la platea ha risposto favorevolmente fornendo uno splendido colpo d’occhio, bianco dei palchetti con il bianco dei rivestimenti delle poltroncine della sala, con il bianco della passerella da sfilata che s’incastonava sopra le file centrali, con il bianco della scena, con il bianco dei teli e dei separé trasparenti. Un effetto da sogno, da nebbia, da ricordo, da nuvola, da neve, da petali dell’albero contenuto nel titolo. “Il giardino dei ciliegi” che potrebbe anche essere tradotto “Il ciliegeto”, a seconda dell’interpretazione se di natura estetica, paesaggistica, o di genere commerciale. Qui era “Il giardino delle visciole” (“Livada de visini”, per la traduzione di Maria Rotar, anche assistente alla regia e collante tra la quindicina di attori rumeni, presi dalla compagnia stabile formata da una trentina di interpreti, tutti con contratto a tempo indeterminato!, e Bacci).
“Il giardino” può avere una doppia lettura: da una parte quella esistenzialista, la fine della vita, la bellezza che fugge e decade, i petali che precipitano a terra, il tutto che passa e sfiorisce, il tempo che abbiamo a disposizione che scade e ci conduce inevitabilmente verso qualcosa di ignoto che abbiamo sempre saputo che sarebbe arrivato ma nei confronti del quale ognuno di noi si sente impreparato, anzi non ha voluto pensarci, ha voluto prendere e perdere tempo nell’attesa, sperando che qualcosa intervenisse per mutare il corso naturale delle cose. Tutti ci sentiamo immortali fin quando non moriamo. Cechov scrisse ed ultimò “Il giardino” (1904) pochi mesi prima del suo decesso: forse sentiva la fine vicina che bussava alla sua porta.
L’altra deriva simbolista e contenutistica è di foggia economico-finanziaria: l’autore di “Zio Vanja” e “Tre sorelle” inserisce nelle corde testuali un duello di scaramucce dialettiche tra lo studente e l’arricchito, tra chi ha dedicato la vita alla cultura, al sapere formale, alle idee, e chi ha preferito andare al sodo, alla sostanza, alla materialità, Trofimov il primo, Lopachin il secondo. E poteva essere considerata, a cento anni dalla sua scrittura, una critica attuale a tutto quel fiorire di nuovi oligarchi, tra gas, petrolio e affini, usciti dalle crepe della fine della dissoluzione post comunista in tutti quei Paesi un tempo controllati dall’ex Urss.
Bacci (che aveva già messo in scena questo testo una trentina d’anni fa con tutt’altre attenzioni e intenzioni) e soci invece confessano di aver più prestato attenzione al primo filone interpretativo: “Siamo degli esseri terminali”, spiega, puntando più sull’inafferrabilità, “non c’è niente di solido”. L’ansia, la morte, l’attesa, l’allarme, lo spleen, la paura per la perdita sono tutti sentimenti e stati d’animo che ben traspaiono da questi petali, alzati come polvere ad ogni passo, come neve caduta ad ovattare e nascondere e coprire e celare. Arriviamo nel Giardino quando tutto è già chiuso, terminato, concluso, finito: gli alberi sono già caduti, i petali sono a terra insabbianti ed eclissanti, resta soltanto la nostalgia soffice di cotone, il ricordo lanuginoso, il riportare alla memoria, il flashback di come si sia giunti a quel punto di non ritorno di piume d’oca morbido e pungente allo stesso tempo.
Il Giardino in questione è visto e sentito dagli abitanti della dacia, dai componenti della famiglia aristocratica in declino e rovina come un peso, una boa-ancora che annega e affossa, una responsabilità da portare addosso, come lo è la vita, come può essere il guscio per la chiocciola, il carapace per la tartaruga, fardello senza il quale è impossibile vivere, ma senza il quale ci si sente più liberi, sollevati, come una mongolfiera senza la sua invadente zavorra di incudine. Tutti i personaggi hanno svariate gradazione di bianchi nella connotazione del loro abbigliamento, arredamento d’ensemble: soltanto lo studente e lo speculatore, ma sentimentale, hanno abiti scuri, dal verde al marrone al grigio. Siamo in un inverno dell’anima. Sono tutti puri e candidi come soltanto la morte riesce a fare, come solo i defunti, ormai senza più la macchia della vita, lo sporcarsi dello stare sulla Terra, sanno, inconsapevolmente, essere. Fiorisce l’immobilismo attorno al giardino nel suo più intimo splendore. E’ maggio e ad agosto la tenuta andrà all’asta, già colma di debiti, debordante di prestiti, zeppa di ipoteche. Tutti pensano ad altro per non pensare al tema più caldo, al problema più urgente, e fastidioso, da risolvere. Intavolano discussioni vane sul niente, dissertazioni sull’amore, divagazioni sul futuro. Non prendono in mano il loro destino, non sanno decidere.
Tutt’attorno svariate valige marroni, contenitori di morte come solo l’iconografia dell’Olocausto ci ha potuto tristemente raccontare, recipienti di partenze di sola andata, viaggi senza ritorno, senza speranza. Unici oggetti sui quali poggiarsi, come se le fondamenta del loro castello di sabbia, del loro Colosso dai piedi d’argilla, si sfaldassero e fossero franate sulla sola possibilità di salvezza: la dipartita. Dopotutto la vita è quella malattia che si guarisce soltanto con la morte. Paradosso. Attorno a loro, a quest’allegra e misera e tragica brigata si annidano cose che si rompono, piccole sfortune e iatture: la cappelliera o la tazza, il piatto e la corda della chitarra e le cadute in questo precario equilibrio di fondo.
Tocchi di colore sparsi e sparpagliati a fiorire come papaveri di Van Gogh, puntinismo impressionista in questo lungo piano sequenza innevato e chimico d’immobilismo: il cappello di Gaev, il foulard dei giochi di prestigio di Charlotte, la grande bandiera rossa. Su tutti, tra gli attori molto preparati e pronti e accesi fin dalla prima, il servo Firs, con voce tremolante, bassa e quasi impaurita, dalla vita e dalla malattia, debole e macilento al rallentatore, Ljuba, dal collo modiglianesco, signora attorno alla quale ruota tutta la farsa, che riesce a scalare il dramma nella paccottiglia e ad arginare la distruzione dentro i limiti dell’infausto destino, Gaev, che mangia frutti a forma e tinte e colori di palle da biliardo con tanto di numero impresso sopra, che brilla per ironia e massa che riesce a declinare, e non era semplice, in volume plastico invece che in impatto insuperabile.
Una cas(s)a vuota, pulita, dove solo l’eco del passato è rimasto a fare da tappezzeria, un immobile che ha trascinato e traviato e tirato dubbioso tra la poesia o il denaro, è stato sconfitto e si è arreso all’evidenza, che la vita viaggia su altri binari rispetto alle possibilità umane e che se la valanga è in atto scostarsene è un dolore alquanto più sordido e lacerante rispetto a qualsiasi presa di posizione. Aleggiano come spiriti, come zombie, come dead men walking, sfrattati dal loro Giardino biblico proprio perché, contrariamente a quanto fece Eva, non hanno saputo mangiare la mela, non hanno saputo cogliere al volo la prospettiva del cambiamento, della conoscenza, ma si sono fatti trascinare in un gioco al massacro perdente più grande di loro, ingestibile. Il giardino che è la loro tomba e cimitero e santo sepolcro li ha intrappolati come ragnatele e adesso li ha liberati dal fitto bosco che pareva inespugnabile, dalla irta nebbia che appariva inestricabile, nel sonno letargico che li affligge come malattia più dello spirito che del corpo.
Un grande scontro anche tra le due visioni opposte dello stare al mondo: lo studente da una parte e l’affarista dall’altra, che, a mio modo di vedere, vede il primo vincitore perché non si lascia comprare (restituisce i soldi) né intaccare dai bisogni, che vive di parole (solo l’uomo protestante pensa che “volere sia potere” e che si debba agire forzatamente sempre e comunque per dare conto del proprio passaggio sulla Terra e che si debba, inoltre, lasciare documenti e monumenti e testimonianze per essere ricordati), di sogni, di illusioni che, certo, non portano a niente di concreto ma che non possono essere distrutti e che non hanno in sé il germe della conquista, del dominio, dell’imperituro. Come ci spiegano le brevi poesie giapponesi, gli haiku, il cui simbolo è, guarda caso, una fioritura, ma del pesco, tanto accecante per splendore, quanto veloce per sparizione e perdita: la bellezza è un attimo e non può essere presa se non con gli occhi e portata dentro come polaroid dell’anima.
Il pubblico rumeno sembra accogliere in pieno le istanze di riso intelligente intrise nel sottotesto, l’ilarità lo coglie in più punti, con attenzione e dedizione, segue, partecipa, si affeziona alle vicende, tributando nel finale minuti di applausi e un battito di mani ritmato, tutti in piedi, felici ed emozionati, generi di conforto al grigiore là fuori come sempre il teatro dovrebbe essere portatore.
“Il giardino dei ciliegi”, da Anton Cechov. Traduzione: Maria Rotar. Regia: Roberto Bacci. Drammaturgia: Stefano Geraci. Scenografia: Adrian Damian, Assistenti alla regia: Maria Rotar, Francesco Puleo. Con: Ramona Dumitrean, Alexandra Tarce, Anca Hanu, Ionut Caras, Sorin Leoveanu, Cristian Grosu, Catalin Herlo, Irina Wintze, Radu Largeanu, Patricia Brad, Cornel Raileanu, Matei Rotaru, Miron Maxim, Pusztai Renato Aladar, Albert Gabor Balazs, Stelian Lupas, Giovanni Mateescu, Ioan Negrea. Visto al Teatro Nazionale di Cluj-Napoca (Romania), il 27 aprile 2014.