MILANO – Non è un’operazione neutra la scelta registica, come non lo è quella dell’allestimento scenografico e di costumi, luci e tappeto sonoro. Può sembrare un’ovvietà, eppure ci sono spettacoli che ce lo ricordano con maggior urgenza. Questo è il caso del “Rosmersholm” di Henrik Ibsen portato in scena da Federica Fracassi e Luca Micheletti, quest’ultimo pure alla regia, al Teatro Franco Parenti di Milano dal 23 gennaio all’11 febbraio 2018.
Non è un’operazione neutra, perché stralciare e poi ricucire un dramma in quattro atti, riducendolo alla forma compressa di un monodramma – un atto unico, tiratissimo, di soli 70 minuti -, inevitabilmente significa porsi nei panni di un demiurgo, intento a giochi per plasmare la materia originaria secondo un suo disegno. È proprio questo che colpisce e non smette di ronzare in testa per tutto il tempo della rappresentazione: qual è l’esigenza di mettere scena un testo del genere – e di farlo così, con quest’allestimento, che va a scardinare l’impianto logistico della sala che lo ospita? Non è rimasto nulla del salotto buono e dell’ariosa dimora in cui era stato ambientata la pièce da Ibsen inventore del moderno dramma borghese. Dove, le grandi finestre, con cui si apriva il primo atto e attraverso le quali Rebekka (Federica Fracassi) e la domestica indugiavano sul rientro del padrone di casa – occasione per seguirne i movimenti sul ponte, mettendo al corrente il pubblico della disgrazia? In questo “Rosmersholm. Il gioco della confessione”, invece, veniamo accolti nello spazio tetro di una camera ardente: due tavoli di legno massiccio a sorreggere i cadaveri, composti, dei due protagonisti e altrettanti lumi a olio a rischiararne i visi. Tutt’attorno il disordine di quel che resta di quel salotto ottocentesco con sedie in barocco veneziano disposte alla rinfusa e candelabri posati direttamente sul pavimento, che profuma già della terra del camposanto; tutt’attorno, e a un tiro di schioppo, le poltroncine porpora, su cui è seduto il pubblico, e da cui, con esplicita metafora, a tratti reciteranno anche i due attori.
Nulla di tutto questo è ciò che ci sconvolge o scandalizza.
Ma certo fa riflettere capire il perché di una scelta del genere. Con un rigurgito dell’acqua del lago, in cui, ce lo diranno poi, si sono annegati entrambi e con lo scalpitio di cavalli – quei cavalli bianchi metafora degli spettri (celeberrimo testo di Ibsen) di quei morti che sono a lungo attaccati a Rosmersholm […], quasi si direbbe ch’essi non sappiano staccarsi dai superstiti – si risvegliano, il Pastore Rosmer (Luca Micheletti) e Rebekka West, dando il via al loro duello d’anime. Quello che risulta evidente fin da subito è l’ambivalenza del rapporto fra i due. Come in un minuetto gotico – o forse, meglio, una tragica schermaglia amorosa –, continuamente si avvicinano e si allontanano, quasi attratti e respinti da un elastico invisibile o da una celata polarità alternata. Si cercano e si protendono, ma senza mai davvero toccarsi, per poi tornare ad allontanarsi, ma senza davvero lasciarsi mai. È la danza dell’attrazione negata: e, a poco a poco, si svelano. Intanto ci raccontano la storia della tragica morte di Beata, moglie suicida, di cui fin da subito si mette in dubbio l’infermità mentale.
In un’atmosfera da gabinetto del Dottor Freud – non a caso Rebecca West divenne prototipo del senso si colpa correlato al complesso d’Edipo al femminile, nelle dissertazioni freudiane -, a poco a poco s’insinua il dubbio che, a spingere Beata nella gora del mulino, sarebbe stata non la sua malferma salute mentale ossessionata dalla candida amicizia fra il marito e la governante, ma l’aver indovinato quell’indicibile sotteso, taciuto a sé dagli stessi amanti. Inizia qui, la vera materia del contendere. Il duello reale, che, da solidali, a poco a poco li trasforma in opposti, è metafora dello scontro fra le due anime di una cultura ancora pesantemente segnata da una doppia eredità: la libera istintiva espansione pagana della vita e la sua disciplina sotto il rigido freno del dovere cristiano. Eppure, in questa ibseniana scacchiera, il bianco e il nero si confondono in un susseguirsi di ribaltamenti, che il regista felicemente esplode sia nelle scene del doppio recitato – le stesse ammissioni di colpa vengono recitate a loop da entrambi contemporaneamente, sortendo un gioco di amplificazione e sovrapposizioni dallo straniante effetto pirandelliano – sia in quelle del doppio ribaltato, nel momento clou in cui sembra che finalmente si perfezioni la presa di coscienza del maschile in Rosero – quando finalmente si fa virile, anche se virile, qui, sembra significare solo prepotente e delirante – e del femminile in Rebecca, in quanto sublimato il suo pur dissimulato eccesso passionale, sembra acquietarsi in un amore devozionale sottomesso e arrendevole.
Nel mezzo tutta una serie di tesi e antitesi: e il bisogno costruire uomini nuovi e donne nuove, capaci di un’amicizia pura – sa di Nietzsche tutto questo e risuona già di quella fallimentarietà, che, anche in quel caso, la vicenda con Andrée Luo Salomé ben insegna; è la gioia che nobilita la vita come sostiene Rosmer, Pastore apostata e pescatore di uomini contenti, ma poi forse no, a nobilitarla è il dolore, come arriva a concludere Rebecca oramai pronta a riscattare col dolore il peso di quella colpa – di quella reale, che, in questo adattamento, si preferisce nemmeno menzionare.
Già, ma cosa hanno da dire a noi, uomini del ventunesimo secolo, discorsi così? Cosa ce li rende urgenti e vicini; cosa evita che tutto ciò non si esaurisca solo in una pagina di archeo – drammaturgia? La scelta formale è quella della scomposizione, sì, ma poi anche di una messa in scena che sceglie modi e mode ottocenteschi – i costumi, la recitazione, gli struggimenti -, che certo non ci avvicinano a tematiche anche culturalmente a noi così poco affini. Certo è accattivante quella continua inversione di ruoli maschio/femmina: questa sì vicina alla nostra sensibilità contemporanea, in cui il gender è teoria ampiamente dibattuta; felice, poi, alcune scelte come un uso ardito dell’illuminazione e di quei colori freddi – il verde, il blu – emessi dai led sotto le poltrone a gettare sinistri riflessi sui volti di questi due spettri.
Pure quell’atmosfera simil Lynch, capace, finalmente, di far sentire un po’ a casa. Per il resto, forse un’operazione ancora un po’ ardita – nei tagli, che, spesso, peccando di estrema sintesi, non hanno consentito, ad esempio, di cogliere fino in fondo il risvolto freudiano della natura machbettiana di Rebecca; nella scelta di un materiale così filosoficamente e culturalmente lontano e complesso -, che rischia di arrivare come un ben confezionato feuilletton gotico. Sì, ma poi? Forse la conclamata bravura degli attori non basta a giustificarne l’impresa.
Visto al teatro Franco Parenti di Milano, mercoledì 30 gennaio 2018.
LETTURE CONSIGLIATE
In Rosmersholm tutto l’amore deve morire Ibsen e Federica Fracassi
In Rosmersholm “tutto l’amore deve morire”. Ibsen e Federica Fracassi