ROMA – “Onfale! Onfale!… Ecco che tu ti eserciti con la clava, mentre Ercole fila la lana!” Così si rivolge il protagonista alla moglie in un passaggio del dramma, attingendo al mito greco. È reso palese in tal modo l’intendimento dell’autore – peraltro largamente anticipato nello svolgimento della vicenda – che ha voluto trasporre nel dramma Il padre il motivo della lotta tra i sessi. Essa è portata qui al suo limite estremo, con la disfatta finale del più debole che, nella visione di Strindberg, è l’uomo: un Ercole cui Onfale ha tolto la clava, facendo di lui un servo amareggiato.
Il padre è il nuovo lavoro allestito dalla Fondazione Teatro della Toscana con la regia e l’interpretazione di Gabriele Lavia. Sulla scena si svolge una vicenda familiare tormentata e grottesca, priva di riflessi narrativi che facciano esplicito riferimento alla biografia di Strindberg, ma per la verità risulta impossibile separare l’autore dal tema trattato. Scritto negli anni più fecondi della sua produzione, il dramma è senza dubbio, infatti, la creazione di un uomo travagliato da percezioni e visioni, spesso vicino a forme di autentica paranoia, con scatti di protesta e ribellione contro una società vissuta come nemica. Le agitate vicende degli anni giovanili e i tre infelici matrimoni avevano acuito la natura ombrosa e ipersensibile dello scrittore svedese e lo avevano condotto ad accostarsi al naturalismo. Ad esso è stato associato Il padre, ma la realtà trasferita da Strindberg nel dramma contraddice la rigorosa obiettività che è cifra espressiva di quella concezione, perché nel dramma – come la regia di Lavia magnificamente evidenzia – esce un universo passionale d’inconsueta violenza, insieme a idee fisse latrici di un’unica generica tesi.
In breve, la trama. Il Capitano, ufficiale di cavalleria, è sposato con Laura. Partendo da un dissidio sull’educazione da impartire alla figlia Berta, hanno inizio la caduta della potenza maschile e la sopraffazione da parte della donna. Laura instilla nella mente del marito il dubbio che la figlia non sia sua, usando le armi dell’allusione e della provocazione quasi impercettibile. Nell’azione vengono coinvolti il medico di famiglia, il fratello ecclesiastico, la figlia e la vecchia balia del capitano. La madre di Laura, frequentemente richiamata, non compare mai in scena, ma è soltanto una voce che di tanto in tanto sollecita l’attenzione della figlia. Laura intende condurre il marito alla follia per farlo interdire e assumere il controllo del contesto familiare. L’uomo subisce uno sgretolamento identitario, giunge ad aggredire la consorte, perde ogni controllo fino a regredire a uno stato mentale infantile e giungere al tragico esito finale.
Scenografia parlante quella ideata da Alessandro Camera per Il padre di Strindberg, spettacolo per il quale è prevista un’importante tournée che si concluderà a Udine (21-23 marzo Teatro Nuovo Giovanni da Udine) . Sul palcoscenico, ove è ricostruito il salotto di un’abitazione ottocentesca, i mobili sono inclinati, azzoppati, metafora delle incrinature dell’anima dei personaggi che in quella casa vivono e soffrono. Predomina nei tessuti degli arredi un colore rosso intenso a evocare la passione, ma anche il sangue, inconscio richiamo all’azione drammaturgica che lo stesso Lavia definisce del “delitto perfetto: l’omicidio psichico”. In qualche modo tutto è anticipato dalla scena, persino la personalità a tratti infantile del protagonista, sottolineata in un’ala del palco dalla piccola soffitta dove giacciono alla rinfusa i giochi dell’infanzia lontana – un mappamondo, un pallone, un teatrino di marionette, il cannocchiale attraverso il quale il Capitano ha imparato ad amare le stelle e maturato probabilmente la sua passione per la ricerca scientifica. Anche se è il teatrino a rivestire il significato più importante, perché una marionetta sta simbolicamente preparando come regalo al padre la figlia Berta e perché sapore teatrale assume il vivere nella visione dell’autore. E nella sequenza finale del dramma, la scena è deprivata degli arredi: rimangono solo i velluti rossi a creare un’alta grotta a forma di utero o forse di cuore.
Protagonista è il Capitano, magistralmente interpretato da Gabriele Lavia. Profondo, perfetto in ogni passaggio – anche nei momenti non facili in cui il personaggio rammenta i primi anni della sua esistenza o si rapporta alla vecchia balia -, Lavia costruisce una figura indimenticabile, senza che le contraddizioni della personalità e della mente dell’uomo ne inficino la credibilità. Ufficiale di cavalleria, è sposato con Laura, della quale Federica Di Martino tratteggia con grande originalità un ritratto assolutamente pregnante. È lucida, composta, elegante. In sostanza, reinventa la figura di Laura, donandole più finezza e intelligenza, creando una donna quasi regale, consapevole della propria potenza creatrice e degli obiettivi da conseguire. A Laura la Di Martino conferisce una crudeltà tagliente, affilata come la sua postura a tratti quasi ieratica. È grazie alla sua interpretazione che il personaggio guadagna universalità, migrando dalla semplice tematica della contrapposizione donna/uomo a quella molto più moderna di donna pienamente consapevole e mai più sottomessa.
Per quanto concerne i personaggi minori, troppo streghina da Hansel e Gretel la balia, troppo bambinesca la figlia, troppo prete l’ecclesiastico, troppo inerme il medico: generosi nella loro interpretazione da caratteristi, ma probabilmente messi in ombra dall’inarrivabile bravura di Lavia e Di Martino.
C’è un altro protagonista, però, nel lavoro messo in scena da Gabriele Lavia ed è il vento che fa sentire sulla scena quasi costantemente la sua voce, evocando il gelo, il paesaggio nordico, la neve, ma anche la solitudine umana che discende dalle fredde dinamiche relazionali in un mondo in cui predomina il buio. È il vento ad accompagnare come uno strumento, con la forza del suo sibilo, la voce interiore e tormentata di Adolf, il Capitano.
Visto al Teatro Quirino di Roma il 27 gennaio 2018.