Quanto somiglia alla Norvegia di Jon Fosse la New York anni ’70 di Neil Simon

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Massimiliano Civica “raffredda” la commedia incandescente del drammaturgo americano, rivelandone l’architettura cristallina fatta di Witz ebraico e personaggi in preda a una crisi di nervi.

RUMOR(S)CENA – PRATO – Non vi tragga in inganno il fatto che Massimiliano Civica, regista di solito impegnato in allestimenti meditati, proponga un titolo di Neil Simon, autore dalla penna effervescente che ha dato al teatro e al cinema pièces irresistibilmente divertenti come A piedi nudi nel parco o La strana coppia, tanto per citarne un paio. Capitolo Due, infatti, è una commedia sì, ma nelle mani di Civica si trasforma in una rarefatta pièce alla Jon Fosse. E questo, per chi frequenta i lavori del regista reatino – oggi alla direzione del Metastasio di Prato – non è una sorpresa: dai tempi di Grand Guignol (2005) quasi ai suoi esordi, Civica si diverte a squadernare i generi. Ci si tuffa dentro come un pesce baleno e ne scompiglia le forme fino a far emergere ossature nascoste. Non avrebbe senso, del resto, riportare sulle scene (quelle del Fabbricone) un testo che risale al 1977 e seguirlo piattamente. Altri tempi, altri sapori.

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Capitolo Due diventa invece un sorprendente congegno teatrale, dove gli attori sono costretti a procedere col freno tirato a mano, senza bruciarsi nel ritmo incandescente del testo. Ne viene fuori un’architettura cristallina, che obbliga lo spettatore a sostare sul senso delle battute. A scoprirne la trasparenza, dove si leggono tutti gli umori del Witz ebraico, quell’ironia scheggiata che Simon ha maneggiato con destrezza trattando di relazioni umane prima di Woody Allen. Si anticipano qui anche quegli spunti autobiografici che l’autore dichiarerà apertamente nella trilogia degli anni Ottanta. Come il drammaturgo, infatti, George il protagonista di Capitolo Due è uno scrittore rimasto vedovo di un’amatissima compagna. Inconsolabile prima, risposerà Jennie poi. Un’attrice conosciuta grazie ai maneggi del fratello Leo e dell’amica di lei, Faye.

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Sono liaisons umorose più che pericolose, espressione di un’umanità incerta, che cerca di tenere a bada l’inquietudine dell’anima con l’ironia dello spirito. Una partitura giocata come un set di tennis (scene di Luca Baldini): la scena divisa in due salotti gemelli dove i personaggi comunicano con i telefoni di una volta o suonando i campanelli della porta.

Il quartetto di attori si orchestra bene nelle parti, anche scambiandosele. L’urticante e un po’ scorbutico Leo di Francesco Rotelli che spinge il fratello fra le braccia di improbabili partner, finisce a sua volta in quelle di Faye (l’espansiva Ilaria Martinelli). Mentre Aldo Ottobrino infonde vita a poco a poco in George con la conoscenza di Jennie/Maria Vittoria Argenti, dosando però una distanza di sicurezza fra battute e stilettate. Ci vorrà tutta la saggezza acquisita dai fallimenti precedenti a dare la forza a Jennie di imporsi per cominciare entrambi un capitolo due.

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Nell’operazione di “raffreddamento”, Civica concede però qualche pennellata pop (la felicità espressa come personaggi di un cartoon, i suoni di telefoni e campanelli fatti con la voce) e una chiusura a cuore – eseguita con il disegno luci, al solito nitido, di Gianni Staropoli – e scegliendo una canzone di Lucio Battisti, Io vorrei… non vorrei… ma se vuoi…, che ricalca perfettamente la storia e ci riporta alle atmosfere degli anni Settanta come la pièce di Simon. Sono le intermittenze del cuore, del resto, che continuano a essere di attualità, ieri come oggi.

 Visto al Fabbricone di Prato il 26 gennaio 2025

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