MILANO – Sembra un divertente giocattolo, questo “Amleto” portato in scena dal Collettivo Cinetico, al Teatro Franco Parenti. E di giocattoli se ne intendono, loro, basti pensare a quel “Cinetico 4.4” espressamente immaginato come un gioco da tavolo: una sorta di brainstorming guidato con l’intento di recuperare parole chiave e mappe mentali indispensabili a costruire una performance. Si gioca in 4, ma, al di là dell’intento ludico, quel che si persegue è un fine sociologico; smuovere e analizzare le dinamiche di negoziazione fra i partecipanti. E se questa è la premessa, ben s’intende che, in quest’ “Amleto”, la rivisitazione del testo shakeasperiano non sarà certo improntata ad un’iconografia classica. Intanto perché non sono una compagnia teatrale, ma un ‘collettivo’ di scrittori, danzatori, videomakers e sportivi, originariamente, il cui cuore pulsante è Francesca Pennini, qui concept, regista e drammaturga, insieme ad Angelo Pedroni. Secondo poi, perché la loro cifra continua a muoversi nell’ottica dello ‘smontare il giocattolo’, per indagarne i meccanismi sottesi. Quel che interessa è scardinare le modalità di fruizione tradizionale da parte dello spettatore e predisporre il territorio ad un’iterazione che faccia esplodere l’unicità/irripetibilità dell’evento performativo. Idem dicesi del teatro in genere. Laddove anche cast, copione e partitura scenica siano rigidamente fissate all’interno di uno spazio drammaturgico sigillato dalla quarta parete, ogni replica è inevitabilmente diversa – respirando del differente fruire dello scambio attore/pubblico.
E’ sotto tali auspici che nasce quest’ “Amleto” – un primo studio portato già l’anno scorso, sempre al Parenti, in occasione del Festival Tfaddal per i 40 anni dell’ “Ambleto” di Testori. L’impulso, ancora una volta, è scomporre il giocattolo. Così dal testo vengono estratte le indicazioni di azione – otto soltanto, in tutta la tragedia -, che si trasformano in una delle prove ad eliminazione, a cui vengono sottoposti i partecipanti. Già questo si rivela essere anche cifra epifanica – non scordiamo che, quello del principe di Danimarca, è il dramma dell'(in)azione e del dilemma fra “essere o non essere”: in senso etico, forse, prima ancora che ontologico. Il format scelto è quello del talent show – in linea con la loro idea di performance: divertente e coinvolgente. Ogni sera quattro nuovi anonimi aspiranti Amleto, reclutati attraverso una call via web, entrano in scena con un sacchetto di carta color avana a nasconderne l’identità e si sottopongono ad una sfida ad eliminazione diretta. Sembra un gioco sadico. Ostesi al giudizio del pubblico, solo una voce fuori campo, ad orientarli, e tre figuri a dorso nudo, calzamaglia nera e volto coperto, che sembrerebbero dei carnefici – complice anche l’oscurità della dark room e la poderosa colonna sonora, sparata a tutto volume. Se ci si ferma a guardarli meglio, è una maschera da schermidore, che ne protegge il viso: così, facilmente li si identifica con quell’Amleto, spadaccino per imposizione, nonostante fosse, come i performer trattenuti da potenti elastici tensori, assolutamente riluttante all’azione.
Anche il pubblico è chiamato ad interagire: non solo perché viene coinvolto fin da subito – quand’è ancora nel foyer – con istruzioni ben precise, ma perché è proprio l’applausometro a stabilire chi passerà il turno – e, a fine serata, il vincitore. Ognuno è chiamato ad una scelta, volente o nolente; ognuno in qualche modo è chiamato a fare i conti con quelle domande amletiche, che, somministrate ai candidati, non possono non rimbalzare, nel gioco empatico, sul pubblico. “Hai dei dubbi?”, “Ti senti vendicativo o vendicatore?” fino a: “Se tua madre sposasse tuo zio, cosa faresti?”
Detta così, potrebbe sembrare una ‘sagra del dilettante’ versione raffinata, perché certo gli aspiranti principi di Danimarca una qual certa motivazione e dimestichezza col palcoscenico devono avercela, sapendo che dovranno portare un testo a memoria e che resteranno allo sbaraglio di fronte al pubblico per un’ora minimo. Si assiste invece ad un evento ogni sera inevitabilmente differente. La griglia è quella, ma poi molto dipende dall’improvvisazione dei candidati, il cui bagaglio, come specifica all’inizio la voce fuori campo, sono solo la memoria di un testo a piacere ed un’azione propiziatoria, oltre al brano di Pirro, recitato dalla compagnia dei teatranti chiamati dal principe di Elsinore. Eppure ognuno di quei ‘possibili’ è da intendersi come una delle ‘n’ variabili di un meccanismo preciso, immodificabile e ben studiato – il ‘giocattolo’, da smontare e rimontare in altro ordine per sperimentarne il funzionamento.
E del giocattolo “Amleto” due sembrano essere i cuori pulsanti: l’azione negata che diventa iato della parola, e la parola stessa che dice del dramma dell’incapacità di agire e, al contempo, dell’impossibilità etica di sottrarsene. Inevitabile che tutto ciò non sfoci in una morte, che non risparmia nessuno. L’azione scenica non la ripercorre in modo narrativo, ma ne insinua, fin da subito, il gelido fiato, nella scelta di uno spazio scenico buio e orribilmente vuoto, oltre che in quelle sagome disegnate attorno ai giocatori via via eliminati e lasciati giacere a terra, per accumulo, come i cadaveri del dramma shakesperiano.
Uscendo di sala, immagino due reazioni: quella di chi si è divertito, fondamentalmente – lasciandosene pervadere solo in modo subliminale, da tutte queste questioni – e chi invece s’interroga in modo esplicito sul significato del moltiplicarsi di questo ‘far teatro’, magari chiedendosi se si possa definire ancora teatro, questo tipo di esperienza – e, allora, cosa sia il teatro. A entrambi i pubblici Collettivo Cinetico ha fornito la propria versione.
Visto al Teatro Franco Parenti di Milano il 28 aprile 2015