RUMOR(S)CENA – ROMA – Direbbe qualcuno , due che fuggono è molto difficile che si incontrino; quasi impossibile che si amino. Specie se sono pazienti di un ospedale psichiatrico. Il Teatro , come il cinema, è il solo medium capace di rendere reale ciò che nella vita non accadrebbe. Solo il Teatro può riscrivere i finali delle storie, quindi riscrivere la storia e lasciarci sognare in pace. Nutrendo l’immaginario collettivo, il dibattito pubblico, il patrimonio artistico di un Paese. E non solo parlare dei sogni o immortalare il boato delle nostre solitudini e disperazioni .Ciò avviene naturalmente, se a dirigere sono i Maestri. Registi talentuosi ed illuminati. È il caso di “Promenade de Santé”, di Giuseppe Piccioni, in scena all’Ambra Jovinelli fino al 28 maggio, da un’opera del francese Nicolas Bedos, mai rappresentato in Italia. Un’opera coraggiosa .
Il bisogno di farsi amare e la sua impossibilità. La disintegrazione della coppia postmoderna. Quello tra lui e lei, Filippo Timi e Lucia Mascino, è un incastro perfetto nell’ imperfezione . Un’unione vertiginosa e proibita, così disperata da annichilire, tanto profana e mondana da risultare ultramondana. Nella quale la carnalità più belluina ed il lirismo sublime, la pulsione erotica e la nobiltà dei sentimenti, sono tutt’uno. Si mescolano al punto di stigmatizzarne la sacralità. La sapiente macchina teatrale ordita da Piccioni – una scatola nera affascinantissima , una ribalta magica, nutrita di arte e cinema, e non solo dei riferimenti teatrali – delinea il cortocircuito. Il punto di ebollizione, di fusione tra due anime scellerate. Ed impossibili . Che mettono in moto il dramma. E quello che in apparenza è un inferno si fa miracolo.
Lui e lei sono due che vivono il tormento, la clausura – la permanenza nella casa di cura, ma anche le strette maglie della malattia mentale- eppure nell’inferno trovano chi inferno non è. O forse, lo è di più . Certamente più delle persone ordinarie, “normali. Sono due che dall’amore, nel dolore, si lasciano cambiare. Un amore che è lama e incudine. I due attori paiono nati per null’altro che amarsi e narrarci le reciproche storie. Il tempo scorre tumultuoso, rapidissimo, ciò che sempre più raramente avviene a teatro, con una regia che lascia vivere lo spettatore insieme alla storia e ai personaggi; avvincendo del tutto .
“Promenade de Santé” è una visione, un frammento adamantino, un fuori orario onirico, sogno così trascinante che avresti voglia di staccarlo da una parete di stelle, tanto sono stellari i personaggi, gli attori, la scenografia minimalista, le accurate e sapienti interpolazioni metacinematografiche – si pensi al maxi schermo con il girato che narra i periodi di separazione tra Timi e Mascino.
Una costante opposizione tra l’interno e il mondo fuori, qui unita ad una venatura sofisticata, da mélo, quasi una costante nell’estetica piccioninana, si pensi anche al suo “Fuori dal Mondo”, “La vita che vorrei”, ma anche al più recente successo “L’ombra del giorno” . Così in Promenade. C’è un confine, una scrittura scenica “di soglia”, tra la dimensione claustrofobica dell’istituto, dove come un po’ ne “La montagna incantata”, à la Thomas Mann, la vita parrebbe interrompersi ed invece scorre con maggior pervicacia, con una recuperata verità ed onestà, ed il mondo esterno, dove accade la vita en plein air, vissuta nelle reciproche biografie, nelle occupazioni quotidiane e negli amori un po’ stantii, asfittici, cui li costringe la “ società civile”. Solo da malati si può vivere davvero, con il caleidoscopio dei sentimenti, per intero.
A rammentarci la sovrana maestria di Piccioni, regista proveniente dal panorama del cinema d’Autore italiano, qui alla Sua prima, pregevolissima, prova teatrale. Come dimostra l’ovazione del pubblico. Merito anche della drammaturgia mirabolante di Bedos. Del talento ancestrale, autentico di Filippo Timi e Lucia Mascino. Timi sa maneggiare con rigore e sapienza tecnica, quasi francescana, il magma emotivo ed umano del proprio io. Piccioni con la sua regia rabdomantica ma appartata, densa di echi à la nouvelle vague ma anche critica e di ricerca – una regia che brilla anche per una robustezza compositiva che pure non sacrifica la carica emotiva – crea qualcosa sul palco che poi devia dalla semplice messa in scena.
Li vediamo sfrecciare “ora come monopattini ora come due Ferrari”. Mascino con una delicatezza vulnerabile che innamora, una violenza autodistruttiva tutta introflessa, che poi implode, e noi soffriamo con lei. Con una fragilità cristallina che si palesa icastica, nitida, senza un neo. Timi conquista la scena e gli spettatori nel battere e levare di grandeur solipsistica, presentandosi come un ubermensch insopportabile ed irresistibile. Finché lo vediamo crollare, e cambiamo idea.
Chè Timi sa tramutarsi in dongiovannesco uomo in fiamme, polemista urticante e cialtrone plumbeo. Ma anche nella larva senza spina dorsale, nella mosca in preda a pulsioni private e vezzi e ideosincrasie. Vittima dongiovannesca dell’errore, carnefice e preda di un carattere che non ha saputo (voluto?) smussare . Forti anche della alchimia che da anni li unisce in scena e sul grande schermo, di un legame profondo che si legge ad ogni sguardo, ad ogni battuta. Si osservano negli occhi, mettendo a nudo le reciproche desolazioni le falle le sbavature , e con gli stessi occhi parlano al pubblico, che rivede se stesso. Landa desolata e pienezza catartica . Sono potenti, vorticosi, istrionici. Iperborei, eroticissimi. Ti travolgono come un tir a duecento all’ora . Uno spettacolo memorabile. Altissimo.
Quasi fosse una partitura jazz con un pizzico della psichedelia seventies di King Crimson. Il viaggio sconsiderato e rocambolesco di due corpi che si sfiorano si studiano si conoscono nel profondo, vivono in una notte soltanto le pulsioni e gli scontri feroci e le passioni viscerali e furiose di una vita intera, popolando le quattro mura di un ospedale psichiatrico che somiglia alle nostre case e non è poi così distante dal l’universo borghese, sancendone anzi la critica corrosiva.
Due personaggi eccentrici ed urticanti, “scomodi”, difficilissimi da amare, ma che è impossibile dimenticare. Si trascinano alla deriva, quasi un delirio onirico che vivano in apnea, al limite della asfissia emotiva; restiamo annichiliti o confusi, quasi li compatiamo, li troviamo strambi, stravaganti; finché ci accorgiamo che quella è la realtà. Il loro è un equilibrio funambolico tra reale e immaginario, e si nutre tutto della psicosi, che è a un tempo visione lucidissima, radiografia impietosa dell’ ineluttabilità della esistenza.
Quasi espiassero l’evento luttuoso delle reciproche esistenze. L’orrore post esistenzialista, molto francofilo, di esser venuti al mondo , del dover stare al mondo. Il disagio e la solitudine soverchia non della mera, abusata pratica alla resilienza, bensì della condanna ad una quotidianità trascurabile e nefasta. Una quotidianità nella quale si getta via il tempo, si sperpera, si parla di tutto fuorché delle cose realmente importanti, come sempre nella vita .
Lui e lei. Due che (soprav)vivono con la camicia di forza delle reciproche esistenze. Due che gli è toccato di amarsi, di un amore imperfetto sbagliato abiurato sconfessato. Ma che gli dà la vita . E loro malgrado, prova a salvarli; muore, provandoci. Un amore così, sconsiderato occultato negato, dichiaratamente patologico, a noi, che forse lo abbiamo sempre sognato, si palesa quale giusto in assoluto. Proprio nella misura in cui è tossico . E va oltre: li travalica, supera il limite fisico degli attori-personaggi, delle coordinate spazio temporali, supera anche noi che guardiamo: ci infonde speranza, conforto e senso e pathos, nella misura in cui è ossessivo . Travalicando anche i limiti di noi umani, noi spettatori e non, che ci proviamo anche, a volare, con risibili ali di tacchino, o con quelle di Icaro involato, che liquefano al sole . Denso di suggestioni, visionario, con echi chabroliani, ci traghetta in un mare tempestoso di passioni, vezzi e liti, quanto lo sono i corpi e le menti dei due, sino a travolgerci e farci capitolare. E pur saggiandone le condotte disfunzionali – i peccati, i loro errori , l’avventatezza con la quale si lasciano trascinare nella mischia e nel mondo. Noi spettatori non ci sentiamo affatto di condannare i protagonisti :ci ricordano noi. E quelli prima di noi. I nostri genitori, forse. Una moltitudine di generazioni. Chè Lui e Lei sono scoria e reificazione Novecentesca. Di tanta letteratura tanto teatro ma anche tanto cinema. Probabilmente sono agglomerato /scoria archetipale di tutte le canzoni d’amore mai scritte.
Mascino e Timi sono il Frutto inevitabile, non mera metafora, del portato storico-culturale e sociale del Novecento sino alla contemporaneità, se non del postmodernismo, fino al Tremila. Come condannare due amanti così , non foss’altro per l’estasi vibrante di cui sono capaci? O non fosse per le tribolazioni ed il furore dell’abitare gli spazi angusti dell’ ospedale, che pure somiglia in maniera quasi kubrickiana alle nostre stanze di vita quotidiana? Sono due (anti?)eroi che ci somigliano, in un epos calamitoso che ci traghetta nella metafora dell’esistenza pur riecheggiando i passi e i sussurri e gli strepiti di persone in flesh and blood. Questo amore tossico, questo amour fou senza fine, questo maschio alfa sconsiderato – menzognero, erotomane, egomane, tossico fino al midollo. Un eterno fuggitivo. Questa donna, ballerina mitomane e bellissima, che si innamora di tutto. Una che inventa la realtà, non sa far altro, e inventando anela e inventa un Eros delirante e rovinoso, che fa capitolare entrambi nell’eristica dei corpi . I due protagonisti sono brutalmente onesti, con noi pubblico e prima ancora con se stessi.
Vivono attraversandosi in autentiche geografie umane, come due che non si conoscono ma già si percorrono : innescano la dinamica di dipendenza affettiva, ergendosi a turris e a un tempo delinendo il locus amoenus l’uno dell’altra. Due anime condannate all’esser malate, che non guariranno mai da sè stesse . Che sanno vedersi simultaneamente nel tutto, che è la globalità del dolore, scrutarsi nell’errore, ancor prima di essersi comprese; quindi smarrirsi.
“Si guarisce mai da se stessi?”, domanda Mascino. Una pièce bella come una canzone d’amore, che congloba tutte le canzoni d’amor perduto mai scritte . Un plauso particolare merita il lavoro di Piccioni con gli attori, una sorta di maieutica registica operata con Timi e Mascino, che liberi da ogni infingimento, senza paura si sono avventurati, emotivamente e non, ben oltre l’usuale, lambendo lidi inesplorati, tanto da sorprendere se stessi, e noi con loro. “Promenade de santè” ci ricorda perché amiamo il teatro, in un periodo post covid in cui, nelle parole del regista, “ parlare di amore significa parlare ancora di vita”.
visto al Teatro Ambra Jovinelli di Roma il 17 maggio 2023