RUMOR(S)CENA – VENEZIA – Metaforizzando, il Teatro, che nel mito e nel rito affonda comunque le sue radici, è una sorta di divino Giano Bifronte con un volto che guarda vicino, nella prossimità esistenziale e comunitaria, e l’altro che guarda invece lontano, nell’orizzonte storico, sociale e dunque anche politico che quella prossimità circonda e determina, essendone peraltro anche determinato. Ovvero, etimologicamente disquisendo, un monstrum meraviglioso con un occhio che contempla il suo interno, la sua intima interiorità, e l’altro che osserva e giudica l’esterno in cui quella interiorità può adeguatamente manifestarsi, per individuare i percorsi più coerenti del suo stesso desiderato esprimersi.
Fuor di metafora e di etimologia, il mondo del teatro è da sempre un mondo doppio, come doppio era Dioniso che si maschera manfestandosi in Apollo, legato da una parte e innanzitutto a ciò che ci sta più vicino, alla comunità che ci chiama e ci determina entro i confini di una condivisione esistenziale quasi diretta, in cui i singoli volti diventano o, meglio, si fanno noti nella relazione che attivano. Un teatro dunque che è comunità ed una comunità che è teatro, in un reciproco servizio che però talora tende a chiudersi in se stesso (come spesso è accaduto purtroppo in questi ultimi due anni), mentre comunità e teatro rischiano di farsi reciprocamente auto-referenti. Una opportunità e un limite dunque.
Dall’altra parte cresce un Teatro che guarda fuori, al mondo, consapevole di quella opportunità che può transitare quel limite di cui parlavamo. Una sfida in fondo lanciata agli stimoli e alle suggestioni che dal mondo ci raggiungono e che rischiano di sorvolarci se non riusciamo a intercettarle per comprenderle. L’arte e soprattutto il teatro è la rete di questi pescatori, capaci spesso di anticipare nella trasfigurazione estetica una comprensione consapevole, psicologica, esistenziale e metafisica, nell’ordine che si preferisce, una consapevolezza che segue, come le salmerie di ogni Madre Courage seguivano le truppe alla battaglia.
Perchè questo percorso non è agevole e, come ricorderebbe Artaud, è fatto anche di sangue e crudeltà (artistica ovviamente), fino alla Polis, un luogo della mente dalle dimensioni estetiche a geometria variabile. Qualcuno qui userebbe il termine glocalismo ma, oltre ad essere a mio avviso un bruttissimo neologismo, è anche termine non adeguato poiché non è nella sovrapposizione e confusione che il Giano teatrale vede più in profondità, ma nel reciproco giudizio e legame con cui i suoi due volti si rappresentano e sono rappresentati.
La Biennale di Venezia è una delle manifestazioni culturali italiane che tradizionalmente meglio rappresenta il nostro sguardo (e la nostra voce) al mondo, in tutti i suoi settori e dunque anche nel Teatro, che più da vicino ci riguarda. È il volto di Giano esposto, come su una torre di vedetta di un vascello in mare aperto, più di altri ai venti che giungono dall’Europa e dal Mondo, ma anche quello, come Avignone e altri in giro per le nazioni, che per primo si mostra a chi volge lo sguardo verso il nostro orizzonte.
La Biennale Teatro è dunque un festival dalle molte lingue, parlate e artistiche, è una porta tra le mura ed insieme un porto cosmopolita. La seconda edizione diretta da Ricci/Forte (ROT il suo suono e Rosso il suo colore) ne ribadisce e insieme rinnova le linee ispiratrici, ospitando molte parti del mondo in quell’Arsenale che di questo è anche metafora, in un armonico mosaico che cerca di recuperare, nel continuo movimento, una visione sul mondo e sul suo oscuro futuro.
Credo sia opportuno per un momento parlare con le loro parole: “Rosso la gradazione di una voce, da indossare nelle mattinate di pioggia. Un colore zattera: una tinta astronave per autenticare, solarizzandola, la leggerezza di esserci; restituendoci l’incendio ostinato” (Stefano Ricci).
“Rosse, le tre sorelle Fantasia, Utopia e Immaginazione, febbrili ma vibranti di una tenera fiammanza inesauribile che, ritte sulla zattera verso i confini dove riverbera l’ignoto, svelando il rovescio della tela del tempo e proiettando l’infinito in un granello di sabbia, sono la mia piccola cicatrice emotiva, una ferita sempre aperta, unica via d’uscita salvifica dal feroce ingorgo routinario del mondo reale” (Gianni Forte).
THE LINGERING NOW – O AGORA QUE DEMORA – OUR ODYSSEY II / CHRISTIANE JATAHY
L’Odissea è un viaggio, forse il viaggio più radicalmente icastico dell’immaginario occidentale, ma non è solo una peripezia, un tornare a, è anche una speranza e un orizzonte, è soprattutto un desiderio ed una nostalgia. È dunque più importante dove vai e perché vai, rispetto ai luoghi che attraversi i quali, peraltro, traggono il loro valore proprio da questo nostro desiderio e da questa nostra nostalgia. Così ci muoviamo in fondo perché amiamo. Christiane Jatahy, artista brasiliana premiata in questa edizione con il Leone d’oro alla carriera, porta per la prima volta in Italia questo suo secondo pannello del dittico ispirato all’omerica Odissea, un pannello che affonda appunto il suo sguardo sull’approdo di quel viaggio, sul desiderio che lo ha animato, Itaca e il ritorno, la casa!. È questo, già dalla sua definizione di origine figurativa, uno spettacolo straordinariamente visivo, e anche sonoro, in cui la stessa drammaturgia originale che lo prepara e sostiene ne è in un certo senso il distillato, di corpi e movimenti, di luci e ombre che dalla scena e dallo schermo si propagano e occupano man mano la sala e noi spettatori. Uno spettacolo misto, infatti, in cui la sintassi teatrale, la recitazione che pirandellianamente confonde palco e platea, circonda il cuore cinematografico (così lo definisce la drammaturga) che con il suo battito alimenta di continuo la circolazione delle suggestioni che il secondo man mano rappresenta.
Le riprese sono avvenute nei luoghi in cui è radicata da tempo la condizione, e dunque l’idea stessa, di profugo: Palestina, Libia, Grecia, Sudafrica e Amazzonia e conservano naturalmente una sintassi da approccio documentario che, proprio per questo, in scena paradossalmente si trasfigura. La presenza sul palco, in sala e nelle immagini degli attori ha un effetto straniante che consente, brecthianamente, di assorbire il senso, la presenza, la qualità intima di una condizione, quella del profugo, che ci appartiene (anche gli italiani emigravano) ma che l’assurdità e l’ottusità dei luoghi comuni dell’oggi allontana e nasconde. Un effetto accentuato dai bambini che nel film, al contrario degli attori e degli adulti, affondano i loro occhi nella macchina da ripresa, quasi a guardarci.
D’altra parte ha scritto Jean Rouch, cinesta ed etnografo: “solo i maestri, i folli e i bambini osano premere i bottoni vietati” (quelli della nostra mente). Una drammaturgia che coinvolge per la sua stessa struttura e natura, che mescola e meticcia, che incista la nostra sensibilità sperando che da quella incisione nasca un pensiero e un giudizio nuovo. Infatti scrive Jatahy nel libro di sala: “il pubblico è il punto verso cui tutto converge, il punto centrale, il punto da cui osservo e creo. […] Il pubblico è un elemento fondamentale dello spettacolo, il pubblico in senso greco, in senso politico, come un coro che trasforma la storia”. Uno spettacolo che aiuta la riflessione e un Leone d’Oro meritato.
Arsenale. Teatro alle Tese, 24 giugno.
Di Christiane Jatahy, con Abbas Abdulelah Al’Shukra, Abdul Lanjesi, Abed Aidy, Adnan Ibrahim Nghnghia, Ahmed Tobasi, Bepkapoy, Blessing Opoko, Corina Sabbas, Emilie Franco, Faisal Abu Alhayjaa, Fepa Teixeira, Frank Sithole, Iketi Kayapó, Irengri Kayapó, Ivan Tirtiaux, Jehad Obeid, Joseph Gaylard, Jovial Mbenga, Kroti, Laerte Késsimos, Leon David Salazar, Linda Michael Mkhwanasi, Maroine Amimi, Mbali Ncube, Melina Martin, Mustafa Sheta, Nadège Meden, Nambulelo Meolongwara, Noji Gaylard, Ojo Kayapó, Omar Al Sbaai, Phana, Pitchou Lambo, Pravinah Nehwati, Pykatire, Ramyar Hussaini, Ranin Odeh, Renata Hardy, Vitor Araújo, Yara Ktaish. Ideazione e regia film: Christiane Jatahy
LATE HOUR SCRATCHING POETRY
Alda Merini è una poetessa e prima ancora è una donna, ma noi la conosciamo soprattutto in quanto “pazza”. È una curiosa ma molto comune distorsione della percezione, quasi che la qualità di pazza ci consentisse di allontanare un qualcosa di profondamente disturbante, giustificandolo per poterlo rendere accettabile. Infatti io credo che l’incapacità consapevole e dichiarata della Merini di poter stare dentro i ruoli dovuti, il ruolo consueto cioè di donna, sia stato il segno di un desiderio di libertà che non trovava sbocco se non nella scrittura, e soprattutto di un desiderio di amore che la vita allontanava da lei, o almeno così lei sentiva. La pazzia è una malattia che porta sofferenza, non è una qualità della mente, e le stupite ammirazioni che spesso accompagnano le opere di Alda Merini non hanno mai potuo alleviarne le sofferenze.
Alda Merini è la protagonista di uno spazio, molto bello e già scenograficamente lirico, uno spazio tutto femminile che chiude ogni giornata del festival. Uno spazio di lettura, ma non solo, di immersione lirica che sfuma nella vera e propria drammaturgia. Curate nel loro complesso da Galatea Ranzi hanno visto nella serata di apertura la partecipata interpretazione di Asia Argento, misurata e coerente oltre le aspettative, con una qualità in grado di fondere il suo dire con la parola della Merini, di mescolare il suo sguardo con quello lontano, ma straordinariamente presente, della poetessa. Chiuderà questo evento Sonia Bergamasco. L’atmosfera sonora è stata alimentata dalle eccellenti prestazioni strumentali di Demetrio Castellucci, in scena mentre alle sue spalle scorrevano video immagini di grande suggestione.
All’Arsenale dal 24 giugno al 3 luglio.
Testi di Alda Merini. Reading: Asia Argento (24/6), Galatea Ranzi (25/6 – 2/7), Sonia Bergamasco (3/7). Assistente Liliana Massari. Soundscape + DJ set di Demetri Castellucci. In collaborazione con Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”.
UNA FORESTA / OLMO MISSAGLIA
Il mondo, il nostro mondo all’apparenza complesso e multiforme, improvvisamente precipitato nell’individuo che così, nell’illusoria apparenza che tutto sia possibile (o consentito), diventa il centro di una espansione senza confini, che svapora nel nulla come l’infinito matematico contenuto in un punto qualsiasi dell’universo. Con questa drammaturgia il giovane Missaglia rappresenta in fondo una generazione (la sua) cui abbiamo fatto credere di possedere il mondo al prezzo di perdere la realtà. Una generazione sulla frontiera, sul limite improvviso di una foresta sconosciuta. Tre giovani vorrebbero varcarla, e forse iniziano a varcarla su invito di una quarta ragazza, in un passaggio che è dalla realtà presente al sogno di mezza estate che vorrebbe farci quello che, senza saperlo, siamo. Oppure al contrario è un passaggio dal sogno che viviamo, ciascuno separato dall’altro, alla realtà di relazioni, concrete come solo può esserlo un sentimento, che sembravano impossibili. È una domanda che non ha risposta in scena.
Le generazioni come la mia che conoscono la differenza, perchè hanno vissuto e difeso le differenze, non sfuggono alla sottile angoscia di queste solitudini omologate, che non si trovano pur continuamente costruendosi con le loro mani, ovvero autofilmandosi in ripetitivo selfie di uno dei tanti social. La Foresta ci dice che oltre il confine c’è altro e l’altro, se ancora abbiamo la possibilità di riconoscerlo per riconoscere finalmente noi stessi. Uno spettacolo inquieto, più che inquietante, nell’iperattiva apatia che caratterizza l’oggi.
Arsenale – Teatro dei Soppalchi il 25 giugno.
Prima assoluta. Di Olmo Missaglia. Interpretazione e co-scrittura: Lea Chanteau, Michele De Luca, Mizuki Kondo, Romain Pigneul. Drammaturgia e collaborazione artistica Médéa Anselin. Scene Justine Bougerol. Disegno luci Sibylle Cabello.
UNDER AN UNNAMED FLOWER / AINE E. NAKAMURA
Tornando a quanto scritto in precedenza, questa è una performance che ricostruisce il mondo attraverso le differenze, o meglio espone le differenze (nel tempo e nello spazio, nella natura e nella storia) intercettate da ogni esistenza affinché il mondo possa finalmente riconoscersi. Riconoscersi vuol dire pacificarsi, assumendo e mescolando quelle differenze per superarle. Aine Nakamura veste il Kimono come segno di frattura nella nostra percezione, per recuperare nella visione estetica del suo passaggio lo scarto necessario a fondare ogni volontà di cambiamento. Tra danza rituale e canto, in cui confluiscono le suggestioni del teatro tradizionale giapponese, quel corpo davanti a noi ci mostra un percorso che non ha mappe, ma solo il nostro desiderio quando si amalgama e ci lega l’uno con l’altro. Un percorso che per primo compie il corpo stesso, riportando dal passato ed elaborandone il lutto, i corpi, della madre e della nonna, che l’anno preceduto e generato e che per questo ne sono la concreta sostanza. Intrecciato ad un profondo messaggio pacifista senza ideologie, quasi un atteggiamento dello spirito di cui l’Oriente è maestro, lo spettacolo sembra voler proporre al nostro Occidente ciò in cui specchiarsi per ritrovare senso.
Del resto la stessa performer riassume esistenzialmente questo confronto e questo profondo amalgama. Uno spettacolo difficile, e anche enigmatico se fronteggiato con la sola ragione, anche quella artistica, ma capace di raggiungere lo sguardo ingenuo che le mille menzogne di ieri e dell’oggi hanno quasi reso cieco. Tra il pubblico (in molti si leggevano difficoltà e perplessità), tre bambini guardavano attenti con quello sguardo aperto e capivano molto più di molti.
A Campo Santo Stefano il 26 giugno.
Di e con Aine E. Nakamura. Vincitrice Biennale College Teatro.
BROKE HOUSE / CADEN MANSON – BIG ART GROUP
E alla fine siamo espulsi da un sogno, il nostro sogno, e ci ritroviamo nel luogo da cui siamo partiti, ora orfani di speranze dopo essere stati (in)felicemente orfani di ogni ideologia, culturale, esistenziale, storica o politica che sia. Se la virtualità è stata dipinta, ed in fondo lo è, come potenzialità infinita oltre la stessa carne del corpo che la sostiene, quando quella crolla sotto il peso di una realtà comunque ineludibile (la crisi della storia, il suo “dopo” come lo definisce il drammaturgo) allora è quello stesso corpo come identità reale che viene messo in discussione. Tutto si confonde e sovrappone, la creatività e la menzogna, l’identità e la dissoluzione di ogni identità. In una sorta di set da reality sembriamo assistere così alle convulsioni (sorta di proiezioni proiettate spontaneamente) di naufraghi ritrovatisi dispersi e reciprocamente sconosciuti. È una drammaturgia che utilizza e sovrappone ogni tipo di forma espressiva, teatrale, cinematografica, televisiva o social, in un mondo fatto in fondo di impulsi elettronici, sia sonori che visivi, in cui stenta ad essere percepita proprio la concretezza, il peso dei corpi, cui siamo stati educati ad ancorare l’io e, insieme all’io, il noi. Una rappresentazione coerente e angosciosa dell’incoerenza e della liquidità di un oggi oltre la speranza, che forse vuole essere il rimbalzo, come scrive il regista, per “ricostruire il corpo che circonda il cuore metaforico del paese.”
Al teatro Piccolo Arsenale il 26 giugno.
Prima europea. Creazione Caden Manson, Jemma Nelson, Big Art Group. Regia e scenografia Caden Manson. Suono Jemma Nelson. Assistente alla regia Riccardo Fazi. Con David Commander, Nicholas Gorham, Heather Litteer, Willie Mullins, Matthew Nasser, Edward Stresen-Reuter. Disegno luci Hillery Makatura, “Family Portrait” 2022, Claudia Doring Baez.
Già abbiamo parlato del “Leone d’oro” alla carriera Christiane Jatahy. Per concludere diamo brevemente conto della cerimonia di consegna di domenica 26 giugno a Ca’ Giustinian. Infatti, dopo la consegna del premio, è seguita una conversazione con l’artista, moderata da Andrea Porcheddu. Al di là delle asserzioni sul tempo presente delle donne, definito “un momento estremo” tra volontà di affermazione e assenza di luoghi sicuri, vorrei sottolineare alcune interessanti riflessioni intorno alla genesi del testo drammaturgico.
Innanzitutto il suo rapporto ineludibile con lo spazio scenico e poi, la necessità della relazione con gli attori, per cui, dice la Jatahy: <<a volte scrivo il testo intero, poi lo trasformo con gli attori, oppure utilizzo l’immaginazione e organizzo poi quanto scrivo durante le prove.>>.
La Biennale Teatro chiuderà i suoi battenti domenica 3 Luglio.