MILANO – E’ una trasposizione fatta con tutti i sacri crismi e assolutamente fedele al testo di Antoin de Saint-Exupéry, “Il Piccolo Principe”, che va in scena tutte tutte le domeniche mattina – dal 20 settembre fino al 27 dicembre – al Teatro Nazionale di Milano. Unico interprete è il bravissimo Salvatore Palombi, che con garbo, mestiere e un’irresistibile capacità di coinvolgere il giovanissimo pubblico, per un’ora salta, sgambetta e si accende in quegli improvvisi lampi di entusiasmo e repentini cambi di tonalità e umore, che sono propri dei bambini. Irrompe in ripetute incursioni in platea, continuamente chiedendo complicità, aiuto – e perfino dell’acqua -, ai bimbi in sala. Riesce a farli sentire parte attiva, integrante e coprotagonista di “questa storia che non ho mai raccontato a nessuno”, confida al loro super ego genitoriale. Quasi un carnevalesco gioco d’inversione delle parti: lui, Antoin l’aviatore, torna bambino nel rievocare l’incontro col Piccolo Principe; e sono loro, in bimbi in platea, a esser chiamati a fare gli ‘adulti’ – ma solo nella funzione di diventar depositari e testimoni di un racconto, che lo si avverte subito essere davvero esclusivo e importante. Li ammalia tutti, proponendosi come una sorta di “bimbo grande”, con la sua recitazione sapientemente disarmante e naif. Se li fa amici, complici, fan… ma soprattutto ‘testimoni’ e depositari, come si diceva, di insegnamenti preziosi.
La storia è quella dell’aviatore Antoin precipitato nel deserto col suo aeroplano e del racconto a posteriori dell’incontro col Piccolo Principe. La scenografia ne ricalca gli umori: il panorama mozzafiato di un deserto dai toni accesi di arancione, proiettato su un fondale/porta, contro cui inutilmente l’uomo bussa, di tanto in tanto, supplicando di aprirgli. E’ disorientato dallo schianto e cerca conforto in una qualche forma di vita. Lo trova in quegli esserini simili a sé, che sono i bimbi del pubblico – e, una volta creato un primo gancio d’empatia, inizia a sciorinare la sua meravigliosa storia dell’incontro col bambino. C’è una cosa precisa, che fa, qui, la regia: il Piccolo Principe è reso in scena attraverso un contenitore conico con disegnata sopra la celeberrima effige che tutti ricordiamo. Quando è l’aviatore a raccontare, la luce sul palco resta bianca – principio di realtà -, mentre nelle scene di dialogo diretto, l’atmosfera si colora delle sfumature magiche del blu elettrico o del fucsia e la voce dialogante di quest’esserino dell’asteroide B612 arriva come un suono secco dalla tonalità metallica, scomposta in tracce, che si amplificano, moltiplicandosi. E’ il momento del primo incontro, quando le due entità davvero si relazionano dalla distanza siderale delle loro differenti specificità – tanto che l’adulto sopporta con fastidio i primi approcci del suo interlocutore.
La richiesta di disegnargli una pecora, così come la paura che questa possa mangiare la sua rosa, nonostante protetta dalle spine, gli arrivano con fastidio. “A cosa servono le spine?” chiede e si chiede, disarmante, il Piccolo Principe. E forse è proprio quell’afflato – come se fosse terribilmente importante saperlo -, che inizia a scioglierlo in un percorso che, mentre per il Piccolo Principe è un viaggio iniziatico in senso proprio, specularmente per Antoin diventa un au rebours ugualmente iniziatico, per certi aspetti, ma nel senso di rievocarlo ad un’autenticità e purezza fanciullesca, che sembrava aver smarrito. Si ricorda del disegno di un serpente, che aveva ingoiato un elefante e di come lui stesso bambino si fosse sorpreso della frettolosità degli adulti nel liquidarlo come l’immagine di un cappello. “Ai grandi bisogna sempre spiegare tutto… e i bambini si stufano”. Lentamente iniziamo a capire che quella richiesta di essere aiutato a tornare a casa, rivolta in principio ai bimbi, risuona e si colora di una plurivocità metaforica, che solo attraverso questo bagno di fanciullezza potrò essere espiata. Non si risparmia, Palombi, nel duettare, gigione, ora col pubblico ora con la voce del Piccolo Principe. Da metallica e riecheggiante, a poco a poco quell’eco inizia a includere pure il timbro dell’aviatore, in quel parlare, che inizia ad essere all’unisono.
Rievocandoli, è lui, il bambino che incontra il vecchio re solitario, che adora dare ordini al suo popolo e che si crede in diritto di esigere qualsiasi cosa da loro, a causa della propria pretesa ragionevolezza; lui pure che incontra l’ubriacone, che beve per dimenticar la vergogna stessa di bere, il vanitoso, che non chiede che applausi e il lampionaio – il solo, che un poco ammiri, in quanto fa qualcosa per gli altri. E’ lui colui che incontra l’uomo d’affari, intento a vendere e comprar stelle e il geografo, che gli consiglia di andare a visitare la Terra. E’ qui che il testo si fa emotivamente più intenso, lasciando che l’ingenuo candore disarmante del fanciullino lasci il posto ad una maggior liricità forse legata a tematiche più adolescenziali e stratificate. E’ qui che il Piccolo Principe, di cui l’aviatore si rivela essere sempre più epifenomeno, inizia a provare sentimenti più complessi. E’ la nostalgia per la sua rosa a renderlo vulnerabile alla sola idea che possa succedergli qualcosa. L’ha lasciata sola sull’asteroide – certo, sotto una campana di vetro… -, ma solo ora ricorda che dissimulava il pianto, salutandolo. E ne avverte una stridente nostalgia. E poi l’incontro con la volpe – essere selvatico, ma che chiede di essere addomesticato. “Non si conoscono che le cose che si addomesticano”. Gli confida: “Gli amici si addomesticano” e gli spiega come fare.
E’ qui che s’inaugura l’ultima parte: quella più emotiva, emozionale; quella in cui, se anche Palombi non dimentica di giocare col pubblico – quando parla di ‘legami’, ad esempio, diventa la volpe e non esita a darsi in pasto ai piccoli, chiedendo loro di aiutarlo a sciogliersi da quelle corde fisiche, metaforici stigmi dei vincoli affettivi. E inizia a sciorinare tutte quelle citazioni, che immediatamente associamo a “Il Piccolo Principe”. “E’ il tempo, che hai dedicato alla tua rosa, che l’ha resa così importante” o “Non si vede bene che col cuore: l’essenziale è invisibile agli occhi”. E mentre la storia dell’incontro/avvicinamento fra i due si consuma in edulcorata tragedia, la grammatica registica svela sempre più esplicitamente la sovrapposizione fra Antoin e il Piccolo Principe, che pinocchiescamente si fa sempre più umano. La voce registrata diventa quella di un ragazzino mentre sciorina a loop le più famose citazioni del testo di Saint-Exupéry e il testamento spirituale dello scherzo delle stelle – come 500 mila sonagli, che lo faranno ridere, di notte, ripensando a lui. Sempre più l’uomo si sublima nel suo essere fanciullino fino a che, all’improvviso, gli viene spontaneamente aperta quella porta contro cui nulla aveva potuto fino ad allora.
Un testo poetico eppure forte, importante e commovente, quello di quest’adattamento e regia di Chiara Noschese. Una performance che la garbata, precisa, modulata e generosa perizia empatica di Salvatore Palombi – complici anche il suggestivo gioco delle luci e il delizioso tratto dei personaggi narrati disegnati da Neva Chieregato -, ci toccano fino in fondo al cuore. E’ lì, dove forse ancora abita, in ciascuno di noi, un fanciullino che non chiede di meglio che di poter ascoltare i 500mila segnagli degli astri, guardando il cielo stellato ed emozionarsi e commuoversi come chi non abbia nulla di cui vergognarsi.
Visto al Teatro Nazionale di Milano il 18 ottobre 2015