RUMOR(S)CENA – GENOVA – Se solo si scosta un poco il velo che come un sipario circonda l’Universo, allora si scopre che in fondo la vita non è che la somma delle nostre morti, o meglio è la somma dei nostri morti, quelli che ci hanno preceduto e anche quelli che ci seguiranno, ciascuno ultimo, nonché suo(sua) fine, di un tempo che tutti li comprende. Con Pupo di Zucchero, Emma Dante ci invita a guardare e a partecipare a quel mondo fatto della materia dei sogni, come insegnava Shakespeare, o anche delle cadenze delle fiabe prima che venissero irrigidite nelle consuetudini di una Società che calcola sé stessa in termini esclusivi di denaro o di potere.
Per far questo bisogna però scendere in basso, nel basso antropologico di un mondo che va perdendosi nella freddezza borghese che, nella sua finta superiorità, ne taglia le radici tradizionali da cui tutti suggevamo avidamente un senso ‘caldo‘ della vita, nonché, grazie o attraverso di esso, nel basso delle nostre viscere spirituali, e questa non vuole sembrare una affermazione ossimorica perché in realtà è nel sangue e nella carne che può ‘impastarsi‘ la sincerità del sentimento e dell’affettività, la profondità della relazione con noi stessi e con l’altro che man mano diventa parte del mio ‘ io’.
Proprio il senso della morte insieme al conseguente senso della vita sono, infatti, le prime vittime, e forse le più importanti, di questa nostra contemporanea ma a lungo preparata ‘Era Glaciale‘ degli affetti e del sentimento. Così la drammaturgia esplora una tradizione ricreandola e in qualche modo esteticamente inverandola sulla scena, una tradizione che ha inevitabilmente i referenti più prossimi alla sua genesi e alla sua frequentazione esistenziale, quel meridione che ancora ricorda, chissà per quanto, un prima con i riverberi di quella luminosità che dagli antri sotterranei della città e da quelli intimi della memoria, dai luoghi dei morti dunque, ci faceva e ci ha fatto a lungo ‘vedere‘.
Forse anche perchè il vecchio “nzenziglio e spetacchiato” che ne è il protagonista vive in un luogo che è tradizionalmente più vicino di altri alle porte degli inferi, che si aprono nei pressi della città di Partenope, o forse è drammaturgicamente più vicino a sé stesso di quanto siamo ormai abituati ad essere noi nella nostra modernità. Tra l’altro anche la scelta estetica di utilizzare il dialetto napoletano e non il ‘suo’ dialetto palermitano, o quanto meno un idioletto che di quelle contrade riassuma la sonorità così musicale e insieme così tagliente, indica forse la necessità della drammaturga/regista di accentuare talune distanze per meglio sottolineare contrapposte vicinanze.
Mentre lavora e impasta un pupo di zucchero, tradizionale dolce della festa dei morti, per degnamente accogliere e ristorare chi ritorna, egli è dunque più facilmente raggiunto dal suo passato perduto che si reincarna invisibile e nascosto attorno a lui. Fantasmi così concreti da produrre propri simulacri, statue o burattini dinoccolati che si mostrano, infine, alla affettuosa venerazione, alla confidente accoglienza che ancora poco tempo fa si mostrava ai funerali popolari, di chi resta aspettando di ricongiungersi.
Uno spettacolo anche, ma non solo, commovente che si mostra come una chiave per aprire una porta dimenticata o che stiamo per dimenticare. Come segno consueto di Emma Dante, è una drammaturgia fatta soprattutto di canto e di danza, in cui la parola trova l’accoglienza necessaria per farsi tramite di significati che stanno nella carne stessa della nostra inestirpabile affettività, nella nostra irriducibile essenza. Splendide le sculture/marionette di Cesare Inzerillo, in una efficace contaminazione con il teatro di figura, e che rimangono sul palcoscenico aperto alla curiosità della platea, dentro una scenografia a sfondo nero ma dai toni talora accecanti, per gli occhi dell’anima ovviamente, in cui si immergono corpi e costumi che sembrano emersi dal nulla che tutto e tutti sovrasta.
Come sempre Emma Dante sceglie con grande cura i suoi attori avendo presente il personaggio e le sue caratteristiche e, dunque, anche in questo caso la compagnia nel suo complesso è all’altezza in tutti i suoi componenti, ma un cenno specifico merita Carmine Maringola, il vecchio dalle fattezze liquide e dai toni a cavallo tra maschile e femminile, in cui traspare talvolta la luce di una tradizione attoriale che ha avuto in Eduardo la sua cuspide.
Una produzione internazionale, al teatro Ivo Chiesa di Genova, ospite del Teatro Nazionale dal 26 al 28 aprile. Ha meritatamente richiamato un pubblico numeroso che alla fine ha lungamente applaudito e poi ha a lungo sostato davanti alle sculture.
PUPO DI ZUCCHERO. La festa dei morti, liberamente ispirato a Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, testo, regia e costumi Emma Dante, con Tiebeu Marc-Henry Brissy Ghadout, Sandro Maria Campagna, Martina Caracappa, Federica Greco, Giuseppe Lino, Carmine Maringola, Valter Sarzi Sartori, Maria Sgro, Stephanie Taillandier, Nancy Trabonae, sculture Cesare Inzerillo, luci Cristian Zucaro, produzione Sud Costa Occidentale, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Scène National Châteauvallon-Liberté, ExtraPôle Provence-Alpes-Côte d’Azur, Teatro Biondo di Palermo, La Criée Théâtre National de Marseille, Festival d’Avignon, Anthéa Antipolis Théâtre d’Antibes, Carnezzeria.
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