RUMOR(S)CENA – VENEZIA – BIENNALE TEATRO – Venezia non è una città. È uno stato d’animo. Camminare per le calli e perdersi tra queste restituisce involontariamente un doveroso rispecchio con se stessi e con la bellezza della storia che ha navigato, solcato, con la mescolanza di culture che oggi testimoniano un’unica identità. Venezia è quell’onda che improvvisamente si alza e si mangia tutto il terreno per portare a galla detriti, interiora. Un non svelato di un “prima” e che, nell’umidità della serata, appare in maniera più nitida, nonostante tutto.
Venezia è una signora ricca, vestita di un manto malinconico che si porta con sé echi lontani e vicini. Storie da raccontare nel silenzio. Così come il silenzio del primo anno della Biennale Teatro con la direzione di ricci/forte, (Stefano Ricci, Gianni Forte) i quali hanno voluto portare in scena esattamente un lato dell’essere umano, quello malinconico, introverso, quel debole lato forte, comunque, che nel momento in cui appare restituisce forza nella totale fragilità. Ed è questa ultima il leitmotiv che ha fatto da padrona agli spettacoli che erano in programma e visti nei giorni 3 e 4 Luglio.
Il Leone d’oro Warlikowki apre la Biennale con “ We are Leaving”, rivisitazione di Suitcase Packers dell’autore l’israeliano Hanoch Levin. Qui viene registrata una migrazione dell’uomo, oltre che dei popoli, dalla vita alla morte. Sono di passaggio con i propri bagagli, i vestiti dai colori accesi, forti, sgargianti come i sentimenti vivi, senza filtri nudi allo specchio Sono esseri fragili, con anime pure ma corrotte da eccessi di una vita che logora, consuma, e allo stesso tempo tiene forte alla terra da cui non riescono a staccarsene se non per la definitiva dipartita. E prima di questa ultima 21 attori in scena animano con un ritmo insormontabile trame, intrecci di relazioni umane come se fossero gettate nel più sporco dei mondi, come uno scenario bukowskiano a cui non è permesso chiedere il “perché” di un vivere passivo tra sesso, droga, alcool, ma viverlo in tre ore circa di pièce. La scenografia, pari a quella di diversi set cinematografici, appare a tratti hopperiana con luci calde di interni tristi e a tratti fredda come quella di ospedali di corsia accentuando il tutto durante le vite consapevoli alle morti.
Si compone e decompone negli ambienti più spavaldi per consumare, da un corpo a una bottiglia quello che sembra un detrito di vita, fino all’ultimo respiro. Quadri di un’ esigenza e di un eccesso marcato e voluto e lo riscontriamo sia nei costumi che nei trucchi. Le videoproiezioni alle spalle esplicano diversi stati d’animo, quelli di uomini e donne che vorrebbero fuggire, andare via, allontanarsi dalla propria terra ma si consumano vicendevolmente come tarme tra di loro, gettando radici deboli. Siamo nella gabbia dell’essere umano imprigionato nella latrina ed il tempo da consumare è equivalente a quello di una sigaretta.
Il fruitore si può annoiare o chiedersi cosa realmente stia succedendo? No, perché non può nemmeno respirare. A tratti sincopati, chi muovendo in maniera convulsa il proprio corpo a suon di musica elettronica, chi provocando, chi restando semplicemente fermo a guardare, chi bevendo e poi bevendo e poi bevendo. La numerosa compagnia di Krystzof Warlikowki si mostra nuda, allo spettatore lasciandolo a tratti destabilizzato, non molto sconvolto, sia chiaro, ma provocando la reazione di stupore senza compromessi di cliché teatrali. In Beckett Vladimir ed Estragon aspettavano Godot, colui che non appariva mai nell’opera. L’attesa di un cambiamento, la speranza di uno stravolgimento. La loro disperazione è tale che entrambi pensano anche al suicidio, ma senza metterlo in pratica. I discorsi futili, superficiali, a tratti sconnessi e privi di significato, lasciano riflettere lo spettatore sul non-sense dell’esistenza umana in alcuni frangenti. Così accade anche in “ We are Leaving” con l’unica eccezione che la morte arriva come preannunciato dal sottotitolo “Commedia per otto funerali” perché l’attesa di una partenza che non arriverà mai porterà in maniera tragicomica alla dipartita.
Paolo Costantini classe 1996, vincitore nell’estate scorsa del Concorso Registi Under 30 della Biennale Teatro, debutta a Venezia nell’edizione 2021 con Uno sguardo estraneo ovvero come la felicità è diventata una pretesa assurda, liberamente ispirato all’opera poetica di Herta Müller, per la drammaturgia di Linda Dalisi e l’interpretazione di Evelina Rosselli e Rebecca Sisti. Anche qui è caro il tema dell’attesa. Due giovani donne spostano in maniera compulsiva oggetti, vestiti, e puliscono e sporcano e ripuliscono. Si parlano, inizialmente, senza guardarsi poi, nel corso della pièce, intersecano i loro sguardi stuzzicandosi con la favola della cicala e delle formica e poi chiedendosi “sto bene?” sgranando gli occhi verso il pubblico.
Gli oggetti sono protagonisti, insieme alle due attrici, della intera scena: animati, deformanti, come all’interno delle fiabe. Una sveglia, posta lateralmente, interrompe a ritmo il fluire di un tempo non percepito, destando un’attenzione diversa da quella proposta in scena. Emerge la difficoltà del relazionarsi tra le due attrici come simbolo dell’incapacità nella società di oggi di comunicare. Il teatro dell’assurdo ritorna come la malinconia di un dialogo, di una comprensione non più viva.
Malinconia che fa da eco anche all’ultimo spettacolo di Danio Manfredini, “Nel lago del cor” una pièce dedicata alla Shoah. Un ennesimo racconto di una strage che ha segnato la storia dell’umanità contemporanea donando cicatrici e segni immutabili nel tempo. È un racconto di questa storia, niente di nuovo se non la poeticità di un grande uomo del teatro che si getta nella passione e nel dolore con l’empatia che lo ha da sempre contraddistinto nei suoi lavori precedenti. Con lui un musicista che, con delle ballate blues, accompagna il ricordo aperto della strage. In scena porta una maschera e indossa la tristemente nota divisa a righe degli internati, il tutto molto didascalico fin dall’inizio della pièce. È un deportato che vuole rimanere vivo per raccontare il dolore, accennando a passi di danza.
Non arriva completamente la commozione in quanto non si percepisce una novità nel raccontare ciò che tristemente è noto.
Visti alla Biennale Teatro di Venezia il 3 e 4 luglio 2021 Teatro Goldoni, Arsenale