Una fessura nella parete nera lunga sei metri. Un varco illuminato tra l’oscuro, capace di contenere una storia descritta con eleganza, raffinatezza di immagini e una superba interpretazione, miscelata efficacemente, tra contrasti visivi, narrazione in continuo movimento, flashback improvvisi, un decalogo di citazioni cinematografiche che rievocano atmosfere del bianco e nero, stile cinema post bellico tipicamente inglese, ma anche quel genere francese che corrisponde alla Nouvelle Vague. Sono gli ingredienti che danno vita a Hotel Methuselah, un’inquietante vicenda ai confini con la realtà, che scorre su un nastro invisibile, dove c’è un uomo affetto da una amnesia così grave da alienarlo nei rapporti e con l’ambiente in cui lavora. Harry è uno straniero, anche per se stesso, nei confronti di un mondo che non gli appartiene e di cui non conosce nulla. Fa il portiere di notte in un hotel decadente e svolge le sue mansioni come un automa, a tal punto da confondere il reale con l’immaginazione, o peggio ancora con un incubo onirico.
Forse lui stesso è un sogno. Una crisi di identità dove gli altri, e un uomo in particolare che appare e lo redarguisce, sembrano proiezioni fantasmatiche della sua personalità che si incontrano, si scontrano, si incrociano e si dividono, dove entrano donne che chiedono sempre la stessa stanza, e ancora quella inquietante presenza maschile, forse un’emanazione di un vissuto del suo inconscio, così tormentato e permeabile ad ogni stimolo esterno, come l’amore, l’affetto, il sesso, il desiderio, la paura della morte. La vita stessa. Solo i rumori di spari ed esplosioni provenienti da un mondo esterno, sembra dire che altrove c’è una guerra in corso, e di conseguenza reale.
Una globalità di tematiche esistenziali, universali, sviscerate con un’abilità visionaria grazie alla creazione del collettivo inglese Imitating The Dog (per la prima volta in Italia) ospiti di Prospettiva, il festival del Teatro Stabile di Torino diretto da Mario Martone, intitolato “Stranieri in patria 150 ” e curato da Fabrizio Arcuri, al quale va riconosciuto il merito di aver scelto un programma così articolato e ricco di proposte artistiche, drammaturgiche, innovative, e soprattutto inedite per il nostro paese. Hotel Methuselah (in Italia si chiamerebbe Matusalemme), tradotto dall’ebraico sta a significare “uomo del dardo”, considerato un uomo molto longevo nella tradizione biblica, e forse la scelta di intitolare lo spettacolo scritto e diretto da Andrew Quick e Pete Brooks (insieme alla compagnia), non è casuale. Se però il nome dell’hotel significa longevità, vecchiaia, ma anche vecchio nei pensieri, nella tradizione popolare si usa l’espressione “sei vecchio come un matusa”, quello che si è visto in scena, è al contrario estremamente moderno e innovativo. Un taglio cinematografico molto dinamico, dove gli attori agiscono senza mai mostrare il viso che viene escluso (il corpo è inteso come una diramazione staccata dal cervello. Il corpo di Henry prova amore per la donna con cui è andato a letto, ma la sua mente poi non lo può confermare.
Le emozioni non vengono a galla, se non attraverso i dialoghi, e le proiezioni distribuite per dare una discontinuità alla vicenda a tratti soffocante, perturbante, da deliri simili alla paranoia. “Sei sempre in ritardo” esclama l’uomo sconosciuto ad Harry, la strana “voce della coscienza”, che amplifica pensieri a di poco turbati del portiere. Inquietante la macchia di sangue che appare sulla canottiera bianca di questo “accusatore”. Ma qual’è l’accusa? La perdita della memoria è un alibi per giustificare al giovane di rimuovere un orrendo delitto? Non vi sono soluzioni a questi interrogativi, altrimenti si scadrebbe in un giallo noir perfettamente prevedibile.
Gli autori, affiancati dall’immedesimazione perfetta che i quattro interpreti offrono, nel contesto drammaturgico: Morven Macbeth, Simon Wainwright, Dominic Fitch, Anna Wilson Hall ( in alternanza nelle repliche recita anche Richard Malcolm che da il cambio a Dominic Fitch) hanno costruito un collage di azioni ripetute che si susseguono in sequenze diverse o sono dei déjà – vu che entrano in conflitto con l’amnesia, visto che rientrano di diritto nella categoria di alterazione dei ricordi, e quindi sono delle paramnesie. La donna che chiede la stanza per una notte, diventa un’ossessione, e nelle apparizioni successive anticipa ciò che è già accaduto prima, e non è la stessa cliente di prima. Un gioco di rifrazioni psichiche che diventa un incubo seriale.
La scatola scenica diventa un caleidoscopio di immagini su video, e fughe in avanti su un tapis ruolant che fa scorrere indietro e avanti il banco della ricezione, o il tavolo dove sono seduti il portiere e la cliente, in un disequilibrio con i corpi che sbucano fuori in orizzontale, come se avessero subito una rotazione nello spazio. Una perfezione tecnica difficilmente eguagliabile.
Una matassa drammaturgica che non si dipana mai, si srotola e quando meno te lo aspetti si aggroviglia. Gli indizi non sono altro che abili stratagemmi disseminati qua e là per portare lo spettatore fuori strada e costringerlo a ricominciare tutto da capo. L’unica riserva critica è rappresentata dal finale scontato: il suicidio in camera di una delle donne -clienti devia via da una storia che non dovrebbe prevedere un epilogo virato al negativo, né tanto meno al positivo, ma dovrebbe lasciare il dubbio che tutta la storia vista non esiste, non è mai accaduta, non è mai iniziata, non è mai finita. O abbiamo visto qualcosa che non esisteva, e l’immaginazione è stata catturata dentro quello schermo liquido e mobile, come è il nostro inconscio misterioso?