RUMOR(S)CENA – ANTIGONE – TEATRO STABILE VERGA – CATANIA – Antigone di Sofocle diretta da Laura Sicignano è uno spettacolo interessante e generoso. Una boccata d’ossigeno per la vicenda dello Stabile catanese del quale forse solo adesso, anche grazie al lavoro organizzativo e creativo di questa regista che ne è anche direttrice artistica, si comincia a intravedere un barlume di futuro. Lasciandosi dietro ogni tipo di rigidezza e di memoria neoclassicista, questa nuova versione si lancia in un serrato corpo a corpo col testo sofocleo (di cui Laura Sicignano firma anche la traduzione e l’adattamento insieme con Alessandra Vannucci), da cui si delinea subito il senso della rappresentazione: Antigone è la giovane donna la quale, in nome di leggi di origine e definizione naturale o sacrale, si ribella senza timore alcuno alla durezza del potere solo recentemente costituito, ancora brutale, grettamente politico e soprattutto maschile. Strutturato secondo una lettura che comprende la nettezza, seppur non bene caratterizzata, con cui Barbara Moselli interpreta Antigone, la fragilità di Ismene, ben colta invece da Lucia Cammaleri, la durezza di Creonte interpretata da Sebastiano Lo Monaco , fino a comprendere il punto di vista di tutti gli attori, e la scelta di un’imponente scenografia (forse eccessivamente ingombrante almeno per la scena del Verga: un vecchio pericolante castello di legno che finisce per crollare simbolicamente alla fine quando tutto sarà compiuto) firmata da Guido Fiorato.
Il risultato rispetta la più tradizionale delle prospettive di lettura: l’eroina ribelle senza paura che si oppone radicalmente a un potere maschile e tracotante. Il compito di rendere lo spettacolo più profondo e problematico lo assume Sebastiano Lo Monaco nel ruolo di Creonte ed è chiaro che la regia accompagna questa espressione di matura consapevolezza. Come spesso accade, questo attore sembra interpretare più se stesso che il personaggio che gli è assegnato, da professionista qual è, capace di comunicare che non è affatto vero che Creonte è banalmente la maschera del cattivo e la vicenda in corso è assai più complicata. Non solo Creonte a Tebe ha preso il posto di Edipo in quanto fratello di Giocasta, ma si attira addosso con la condanna di Antigone una terrificante punizione divina (la morte del figlio Emone fidanzato di Antigone e subito dopo quella della moglie Euridice che si suicida). Si evince come il suo tormento renda chiaro quanto il confitto tra le leggi “non scritte”, difese da Antigone e quelle “politiche”, impersonate da lui stesso, è davvero assai meno banale e (per noi) molto più attuale e vivo di quanto non sembri. Non è detto che le leggi del ghenos, le leggi naturali, siano da salvaguardare e difendere più di quelle politiche. È una complessità di cui Creonte vive ed esprime tutta la durezza, che agisce e subisce sino alla catastrofe finale.
Suo figlio Emone (personaggio ben compreso e interpretato da Luca Iacono) lo scongiura di rifiutare ogni eroica, ma sostanzialmente sterile durezza, di accettare questa complessità e di piegarsi ad essa. Ma è una sfida che anche Antigone, dal canto suo, rifiuta e se pur frustrata e misconosciuta, provoca inevitabilmente – o implica fattualmente – conseguenze violente e financo mostruose. Lo testimonia tutta la storia dei Labdacidi e sembra annunciarlo nel suo monologo un Tiresia interpretato con forza da Franco Mirabella: un profeta/fool capace di voler contenere al contempo la forza ancestrale del personaggio mitologico e la ricchezza di senso affidata ai profeti e ai matti: una concessione da parte della storia del teatro occidentale.
Prima di rinchiuderla nella caverna, i tre guerriglieri/guardie (Silvio Laviano, Simone Luglio, Pietro Pace), a cui è affidato tra l’altro il ruolo del coro, sembrano alludere a un tentativo di stupro: è un allusione visibile e perturbante che precede e spiega il senso profondo di questo allestimento. Un’idea importante il cui risultato non viene sviluppato. Un’allusione tuttavia, per quanto evidente, non è un’azione, e probabilmente nell’economia complessiva sarebbe stato più utile renderla esplicitamente per consentire alla fine della messinscena, in una forma definita – seppur scandalosa – la lettura scelta: la grotta oscura in cui viene lasciata morire Antigone è la violenza maschile che si rifiuta di cogliere la complessità della realtà, specialmente quando equivale alla forza e alla ribellione di una donna.
Al contrario si è deciso di scegliere una forma più consueta: forse uno stupro avrebbe sopravanzato la carica di violenza esplicita tollerabile in una tragedia. Forse per non forzare l’originaria ambiguità del testo antico. Eppure non è mancato il coraggio di affidare un monologo di nuovo conio a Egle Doria e recitato nel ruolo di Euridice, con un’infrazione non lieve della tessitura drammaturgica sofoclea. Non convincente perché, al di là del pathos ingiustificato, quel personaggio si esprime con un silenzio che è un’invenzione drammaturgica strepitosa capace di dire tutto senza proferire una sola sillaba più del necessario. Efficaci appaiono infine le musiche di Edmondo Romano: composizioni originali e suonate in scena che danno profondità e autenticità di evento e di mistero a quanto accade.
Visto il 15 ottobre 2019 al Teatro Stabile Verga di Catania