RUMOR(S)CENA – TEATRO DI RIFREDI – FIRENZE – C’è qualcosa di crudele nel centrare un argomento. Si va a teatro, ci si siede e si viene investiti dalla bellezza, dal senso che un bravo autore ha saputo restituire a un concetto. E ci diciamo che quell’autore ha un dono e quel dono è una benedizione, per noi e per lui. Suona così bene, così facile. Tanto per risparmiare tempo: Misericordia di Emma Dante è perfetto e, beninteso, non lo troverete scritto solo qui. Di questo spettacolo, come del suo testo, è giusto parlare e c’è bisogno di scriverne, perché nessuna parola è sprecata quando si cerca di comprendere cosa fa di uno spettacolo un bello spettacolo. Ma non si può non pensare a quella parola che sta nel titolo, che non sta in bocca da quanto è grande e che invece sta tutta in un solo atto, senza che avanzi spazio o le pareti cedano per contenerla.
Emma Dante è riuscita con pochi tratti, non solo a ritrarre una storia esemplare, ma a dare peso e forma a una parola che a forza di essere ripetuta milioni di volte stava naufragando sulla rotta perduta dei mantra. È riuscita a centrare il tema e della nitidezza che ha adoperato ci ha fatto dono, certo, ma quanto è costato questo dono? Quanto è costata a Anna, Nuzza e Bettina la scelta di accudire Arturo, il figlio menomato che la loro amica Lucia ha messo alla luce a costo della sua vita? E in che momento il peso dell’accudimento è divenuto talmente insopportabile, che neanche la dolcezza dei ricordi riesce a richiamare le motivazioni che le hanno spinte a compiere quell’atto di misericordia?
Il lavoro di preparazione intorno alla tematica di Misericordia deve essere costato più degli applausi che ha ricevuto, così come non basta un applauso a liquidare il conto che Misericordia presenta allo spettatore. Non è la storia di un atto di generosità, ma la cronaca della vittoria della crudeltà delle cose sulla crudeltà della ragione umana. Misericordia inizia nel momento esatto in cui le tre protagoniste, che abitano l’abbrutimento come fosse un luogo, scelgono di disfarsi di Arturo per affidarlo a un istituto. Le loro premure, il gareggiare l’una contro l’altra per dimostrarsi la più generosa e la più affettuosa, non sono dirette al ragazzo, che d’altro canto non sarebbe in grado di comprendere ciò che sta per accadergli, ma servono solo ad autogiustificarsi e a escludere ogni alternativa alla decisione già presa.
È la logica del “non si poteva fare altrimenti”, che si trincera dietro al palese disagio economico, ma si contraddice da sola quando nella consueta gara in cui le tre si misurano, Bettina sfodera un piccolo tesoro di trecento euro da mettere in tasca al figlio adottivo, certamente sudato tra lavori a maglia con tessuti recuperati dall’immondizia e il mercimonio del suo corpo, ma che solo adesso reputa spendibile, al fine di facilitare l’allontanamento di Arturo. Queste tre donne, che continuano ad autoritrarsi come esempi di materna istintualità, in realtà non fanno che soffocare questo istinto, potente ma scomodo, convincendosi che ciò che hanno scelto è proprio quello che una madre responsabile sceglierebbe per quel figlio così sfortunato. La verità è che si sono rese conto che la misericordia non sta in quello slancio di altruismo che le spinse a prendersi cura di Arturo dopo la morte di sua madre, ma nel portare avanti quella scelta che adesso non si sentono più in grado di sostenere.
Sono così felici, quindi, nel vedere il loro Arturo che all’improvviso riesce a trasformarsi da burattino nudo e perennemente in preda agli spasmi della malattia psichica e fisica che rappresentano l’unica sua interazione col mondo circostante, in un bambino vero che sa vestirsi da solo e prepararsi all’arrivo della “banda” che lo porterà via dalle loro vite: una delle poche letture, spiazzanti ma corrette, del mito di Pinocchio, in troppi altri casi declinato invece a quell’ esosa chiave formativa che ha certamente poco a che fare con le intenzioni di Carlo Collodi. Ma tanto la vera natura del materno che le donne respingono, quanto le leggi della misericordia hanno in serbo per loro un ultimo scherzo crudele, che le richiamerà alla responsabilità proprio quando sarà troppo tardi per farlo. Un finale bello e terribile, racchiuso nella prima e nell’ultima parola che uscirà dalla bocca di Arturo.
Il trionfo del femminile e del reale valore della misericordia non riscatterà quindi Anna, Nuzza e Bettina, ma le schiaccerà, relegandole ad una prigione ben peggiore di quella che attende Arturo: la crudeltà del senso di colpa. Misericordia è di una violenza inaudita e nel contempo cesellato con sfumature delicatissime dove il siciliano teatrale di Emma Dante supera con la veribilità ogni inutile intento veristico, imponendo ritmi efficaci ai dialoghi, che suscitano il divertimento nello spettatore appena prima di sfociare in una fisicità estrema che raggela la platea, la inchioda alla poltrona, la ammonisce e la strega.
Una fisicità tra il filmico e il pittorico, che raggiunge il sublime in un vero proprio quadro scenico incastonato all’interno della narrazione. L’improvviso palesarsi della doppia vita delle protagoniste, la loro attività notturna di prostitute. Il ritmo lascivo, esoterico di “Trasmigrazioni” del compositore Rocco de Rosa le fa liberare dei miseri e casti abiti a fiori per far esplodere le nudità sfacciatamente comuni, lontane dai canoni della bellezza levigata e proprio per questo carnalmente magnetiche. Diventano selvaggi oggetti di frugali piaceri, consumati in fretta contro i muri dei quartieri popolari, demoni femminei folli e danzanti attorno ai quali ruota come uno spiritello succube e birichino Arturo. Le luci ideate da Cristian Zucaro giocano di contrasto con un calore appena accennato che regala ai nostri occhi la suggestione di una sequenza di Almadovar dipinta da un Georges de La Tour, mentre le attrici maneggiano bombolette di deodorante diffondendo odori di dozzinale aroma per la platea.
L’occupazione dello spazio scenico è in generale un esempio di scansione gestuale e interpretativa di grande livello, elemento tanto discreto quanto cruciale nella godibilità dello spettacolo. Il lavoro delle interpreti femminili non è solo un buon esempio di capacità attoriali, ma ha l’evidente natura di vera e propria collaborazione con la regista, per ricerca e sinergia negli intenti. Italia Carroccio è graffiante e reattiva, Manuela Lo Sicco con grande misura si ritaglia ottimi momenti per colpire con la padronanza della mimica facciale e l’incisività vocale, la fisicità di Leonarda Saffi veicola la buona dimestichezza nel gestire la dinamica forte piano della sua interpretazione. Al centro dell’attenzione e della narrazione, come è ovvio c’è Simone Zambelli: attore danzatore, contenitore di poesia motoria e di nitida ritrattistica. Zambrelli è perno dell’azione, passante della corda tensiva della drammaticità dello spettacolo e senza soluzione di continuità alterna la danza moderna, la classica, la performing art, il vaudeville: un po’ Buster Keaton, un po’ Puck, un po’ Nureyev e a questo punto, decisamente Zambrelli. Di un bravo che sconfina nel bello.
C’è tanta bellezza in Misericordia e i suoi personaggi non possono niente contro di lei, esattamente come sono inermi di fronte alla sua crudeltà. La vicenda è ambientata nei quartieri popolari di una Sicilia periferica, ma la sua crudele dinamica potrebbe consumarsi in un dramma borghese, o nelle nostre stesse vite, dobbiamo capirlo. Se poi sia un dono, o una benedizione, questa è tutta un’altra storia.
Visto al Teatro di Rifredi il 28 ottobre 2021