Teatro, Teatrorecensione — 02/12/2015 at 22:05

Le suggestioni di tre donne nel loro “Credoinunsolodio”

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MILANO – Fresco fresco di Premi Ubu come  – Migliore novità italiana o ricerca drammaturgica per “Lehman Trilogy”, all’indomani della consegna dell’ambito riconoscimento, Stefano Massini ha debuttato al Piccolo Teatro Studio di Milano con la sua ultima fatica “Credoinunsolodio”. Scritto come una sola parola senza spazi. Già il titolo esplicita la complessità della materia. Lo si può scandire in “Credo in un solo dio” o “Credo in un sol odio”, dove entrambe le opzioni risultano essere possibili, più che alternative. Questo ci racconta la drammaturgia dello spettacolo.

Il pubblico è accolto da una scenografia the day after con tanto di sabbioso muretto di trincea sullo sfondo e, sulla destra, una polverosa porta – simbolica, in una poliedricità di accezioni -, miracolosamente scampata a un’esplosione. Scampata, già, ma solo in parte, scopriremo poi – esattamente come una delle protagoniste, che, da un certo punto in avanti, ci riporta costantemente all’ossessivo, quanto mai attuale quesito, sulla paura e su quanto sia necessario padroneggiarla, se non si vuole restare tagliati fuori dall’umano consesso. Pleonastico sottolinearne l’urgenza dopo i fatti di Parigi.

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Credoinunsolodio (crediti foto di Attilio Marasco)

Questo s’intuisce fin dall’ingresso in sala. In primo piano i tavolini e le sedie di un bar, molti dei quali sospesi in aria, come nell’attimo cristallizzato della conflagrazione. Tutto è già successo. Ce lo dicono bene le cifre analogiche, che ossessivamente scorrono all’indietro, ma poi anche si ribaltano, invertono l’orientamento o sfiorano tempi inimmaginabili, fino a contemplare unità di misura differenti dalla base senaria del normale computo in ore, minuti e secondi. Suggeriscono un tempo amleticamente “scardinato”, ma le protagoniste, qui, non ce l’hanno la vocazione del giovane principe danese, che si malediva: “Guai a me che nacqui per rimetterlo a posto”. Fuori dal genere tragico – nonostante la drammatica attualità del tema trattato –, Shirin Akhras/Sandra Toffolatti, studentessa universitaria palestinese, Eden Golan/Mariangeles Torres, cattedratica docente ebrea di storia ebraica e Mina Wilkinson/Manuela Mandracchia, soldatessa americana, non cercano una catarsi, né sono detentrici di un destino da inverare, eccezion fatta per la pur fragile e dubbiosa aspirante kamikaze in nome di Allah. Certo, analogamente ai personaggi delle tragedie greche, anche loro sembrano dimenarsi come pedine impazzite sullo scacchiere di un Fato che sa già, dove andrà a parare – e gli stralci di piastrellato a quadri, su cui si muovo, non fanno che rafforzarne la suggestione.

Crediti foto di Marasco
Manuela Mandracchia, Sandra Toffolatti, Mariangeles Torres (crediti foto di Attilio Marasco)

Suggestione. Eccola, forse, la parola chiave. Perché per quanto ben strutturata sia la scrittura – le vicende che si triplicano nell’ inconconciliabile assolutezza di ciascuno dei tre punti di vista – per quanto poetica e curata sia la scelta delle parole – si parla di “leggi” e di “comandamenti”,  come minuziosi pilastri dei più quotidiani comportamenti dei due popoli, ma poi, in senso liquido, laico e trasversale, anche come dictat dell’interventismo occidentale, –  nonostante siano efficaci alcuni accorgimenti registici – le voci che si deformano a distinguere il tempo del racconto dal flusso di coscienza o, ancora, le scene in cui visivamente si mostra l’apparente sovrapponibilità delle due donne mediorientali;  lo spettacolo è giocato più che altro sulla suggestione.

Ci sono spunti interessanti nel delineare ciascuna delle tre figure di donna. Della giovane palestinese che va al martirio si sottolinea il rigorismo – il suo vergognarsi di far vedere i libri, mentre va in autobus verso l’università, “perché una ragazza che studia è una benestante, una benestante è una che scende a compromessi e il compromesso è tutto ciò che c’è di più diverso da me”– , ma poi se ne tratteggia anche tutto il carico di umanità nei dubbi sulla capacità di farcela, nelle paure che la paralizzano, di fronte alla giovinezza delle altre vite, coinvolte e nella disperata e cieca fede nei mantra della sua tradizione, di contro al tentativo di seduzione degli slogan della pubblicità occidentale. Della professoressa ebrea vengono messe a fuoco la determinazione e l’eguale l’umanità – anti fanatica, nel suo caso -, che sarà però messa alla prova fino a farla scoprire colposamente fragile e a farla retrocedere da un atteggiamento di tolleranza a una ricerca di sicurezza, se non certo di vendetta. “Ho motivato in mille saggi la stessa identità di radici, eppure vorrei qualcuno che mi dicesse che da domani ci sarà un muro bello grosso fra noi e loro”, si trova a pensare, scampata al primo attentato. In fondo il personaggio più disincantato è la soldatessa americana, sempre pronta a considerazioni sarcastiche sul senso della presenza delle forze occidentali e a dirimere quella che in fondo per lei è solo una faida tribale.

Non si sa chi ha iniziato e chi ha la colpa. Non si sa chi è la vittima e chi il carnefice. Quando il dio di questo e il dio di quello” non si conciliano, “chiamano noi, gli occidentali. E la nostra funzione è ascoltare e poi scegliere. Non quel che è giusto, ma quel che conviene”. Come si potrebbe, del resto, prendere posizione? Colui che per gli uni è “martire”, per gli altri è un attentatore e se s’immola portando a compimento la strage, i suoi parenti gioiscono e scendono per le strade a offrire a tutti praline e caffé, mentre se esplode prima di andare a segno, gli altri archiviano la cosa con un laconico e sbrigativo: “incidente sul lavoro”.

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Ma, al di là di questi e altri spunti interessanti, i personaggi poi restano solo abbozzati. Cosa spinge una donna occidentale a farsi soldatessa in Medio Oriente? C’è un vago parlare della chiesa della sua comunità d’origine, sottolineandone la chiusura e bigottismo. Può bastare a delineare il profilo di una donna, che si scopre a dichiararsi “cristiana” solo quando si trova a scegliere se flaggarlo sul questionario di una ricerca di mercato, compilata al solo scopo di ottenere sconti? Così le tre agiscono in modo piuttosto scontato verso il non solo dichiarato, ma via via sempre più prevedibile epilogo. Le azioni vengono sacrificate in nome di un esubero di parole – in prima o in terza persona;  come  flusso di coscienza o di narrazione. Tutto ci viene detto e poco è agito, tanto da dover poi a tratti compensare con azioni sceniche pure. Anche il registro recitativo risuona aulico, rispetto alla contemporaneità dei fatti narrati. Peccato.  In passato, Manuela Mandracchia, Sandra Toffolatti, Mariangeles Torres,  anche con Alvia Reale, avevano interpretato delle “Troiane” indimenticabili,  proprio allo Piccolo Teatro Studio. Ma qui occorrevano altre corde ed altri registri. Ed una regia (la firmano le stesse tre interpreti)  capace di provare a tradurre, anche in un’azione scenica un po’ più strutturata, quello che invece si riduce a poco più che un prevedibile minuetto di pedine su un pavimento guarda caso a scacchi.

Visto al Teatro Studio  il 1 dicembre 2015

Repliche fino al 20 dicembre 2015

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