SANSEPOLCRO. La consuetudine per un critico è di stare seduto in platea con lo sguardo rivolto verso il palcoscenico. L’azione conseguente è scrivere. Quella dell’attore è di recitare mostrandosi al pubblico. Il primo valuta ciò che il secondo esprime attraverso la creatività, il talento, un’idea visionaria. Tutto accade a una certa distanza, a volte solo fisica, spesso emotiva. Nel buio di un teatro gli occhi scrutano sulla scena, per poi raccontare, a distanza, quanto visto, attraverso le parole scritte, impresse su un foglio di giornale, o sullo schermo di un computer. Destini che s’incontrano per un attimo fugace, lontani subito dopo, già da un’altra parte, spesso in direzioni divergenti. A Kilowatt festival di Sansepolcro accade l’esatto opposto. Le rotte convergono, due flotte navigano verso lo stesso approdo. Sono quelle dei Visionari e dei Fiancheggiatori, in comune hanno una cosa: il teatro. I primi visionano venti minuti di creazioni teatrali in lizza per partecipare a un festival “nato dal basso”, (quest’anno sono stati ben 370 i lavori inviati, nove i selezionati), i secondi di professione critici, assumono il ruolo di Fiancheggiatori. Affiancano le compagnie teatrali, il giorno dopo la loro esibizione, per analizzare e sezionare il risultato stesso della rappresentazione. Un cambio di prospettiva dove ti ritrovi seduto in un ovale, ospitati dentro il complesso del Chiostro di Santa Chiara, ex chiesa e sede espositiva di mostre d’arte. Per inaugurare la nona edizione è stata allestita una collettiva di artisti dal titolo “Momenti di trascurabile sacralità”. Se il sacro visto dall’artista visuale può essere trascurato, i Fiancheggiatori hanno l’arduo e impegnativo compito di non trascurare nulla. I Visionari si erano già assunti l’onere di setacciare tra le centinaia di proposte, restituirle alle compagnie, chiedere loro di portare in scena il senso compiuto di un testo drammaturgico. I Fiancheggiatori completano le valutazioni da “ esame”, per segnalare cosa non ha – eventualmente – funzionato. Tre spettacoli per volta, uno di seguito all’altro.
Sguardi indagatori carichi di apprensione tra gli artisti, in attesa del “giudizio”, a volte un “verdetto”, dove o sei promosso o sei rimandato. In ultima ratio sussiste anche la facoltà di “bocciare”, ma il compito più specifico, non era quello di recensire, bensì di dare indicazioni per gli aggiustamenti, correzioni di rotta, suggerire delle ipotesi aggiuntive, qualche volta sostitutive, del lavoro fino a quel punto compiuto.
Nove Fiancheggiatori, nove modi di indagare la scena, di attraversarla, di capirla, nel tentativo di avvicinarsi il più possibile alle intenzioni registiche, di svelarne le concezioni poetiche, ideative, drammaturgiche. Una responsabilità che ha le più possibili caratteristiche di terzietà, forma autonoma di giudizio, a volte condivisa tra i colleghi (a fianco a fianco), altre no, com’è giusto che sia.
Dubbi, incertezze, quesiti, chiarimenti, proposte, suggerimenti, tutto quanto poteva essere utile alla discussione, usciva dalla circolarità del dibattito coordinato e moderato da Luca Ricci, direttore artistico di Kilowatt festival, con il contributo dialettico dei Visionari. Il clima era dei più propensi alla discussione, al confronto costruttivo, all’accettazione dei “responsi”, accolti con senso di responsabilità. Tre giorni per dare valore al lavoro di tutti. Un contributo al fare cultura insieme. C’è stato anche spazio per il piacere di stare insieme, i Fiancheggiatori si sono ritrovati, qualcuno si conosceva già, altri si vedevano per la prima volta, e l’allegria nei dopo spettacoli, diventava un utile antidoto alla stanchezza mentale e intellettuale, somministrato con il fare tardi nel pub, ritrovo post-festival.
Nel tentativo di tracciare una sintesi di quanto visto complessivamente, l’impressione ricavata dopo la visione dei nove titoli presentati, è stata quella di molte idee proposte, spesso in conflitto tra di loro, alcune meritevoli di essere apprezzate e lodate, altre più nebulose, dall’esito incompiuto. Drammaturgie che rischiavano di implodere, per eccesso di stili, di ridondanza tra gesto-parola- effetto, di affastellamenti verbosi, tentativi forzati di aggiungere e non di sottrarre. Nella visione sulla scena è accaduto (in alcuni dei lavori presentati) che i Visionari si siano trovati di fronte ad un prodotto artistico diverso nella qualità e nella sostanza: il video poteva ingannare sia per la sintesi ridotta a soli venti minuti, sia per l’operazione di montaggio, la quale rischia di far passare una cosa per un’altra. Non vedendo l’allestimento totale, le valutazioni effettuate si sono rivelate, in seguito, in alcuni casi, non all’altezza delle aspettative. Gioca anche questo elemento all’interno del comitato che visiona e valuta, oltre a criteri più squisitamente tecnici e artistici.
Il primo dei nove “eletti” a partecipare al festival era “Misfit like” a clown, di Linda Dalisi, proveniente dal Nuovo Teatro Nuovo di Napoli, monologo interpretato da Daniele Fior e pensato per il progetto di teatro anatomico di Antonio Latella, operazione affossata dopo solo un anno di vita. Complice il fermo (causato dalla mancanza di date), la messa in scena soffriva di una certa disomogeneità tra bravura indubbia dell’attore, e la sua relazione tra testo drammaturgico, liberamente tratto da Opinioni di un clown di Heinrich Boll, e interazione con la scena e il pubblico, disposto su due file contrapposte, l’una di fronte all’altro. In mezzo una striscia dove l’attore portava a conoscenza la perdita e la sofferenza per un amore estinto.
Tre spettacoli al maschile, tre monologhi: il primo è un assolo per attore, il secondo affidato a un giovane danzatore, Matteo Fantoni, in “Leoni”, autore anche della coreografia, una sorta di anti-espressiva danza, giocata più sul caratterizzare un’auto ironia, una ricerca di movimento non estetico, a tratti volutamente ingenuo, per apparire ciò che uno vorrebbe essere ma non è. Una lotta contro una società edonistica, alla mancanza di spazi per agire (esteriormente –interiormente) con la giusta dose di riflessività e calma. C’è il desiderio di ricerca, di sperimentazione, nel lavoro di Fantoni, dove il rischio (anche per sua ammissione) è quello di portare il suo studio in teatri e rassegne di danza, se pur contemporanea, e non venir capiti, per vicinanza con un genere di danza molto diverso dal suo, concettualmente distante da altri percorsi e generi. Uno sforzo vitale nel tentativo di esorcizzare la paura di non emergere, di non farcela, di rimanere schiacciati da un peso esistenziale che chiede di essere quasi dei superman.
“Le ultime sette parole di Cristo”, monologo per attore e due musicisti, detta “minestra di fede per cialtrone e strumenti antichi”. Giovanni Scifoni sceglie sette frasi evangeliche, le estende a un viaggio tra fede, mistiche medievali, citazioni colte, sacro e profano, tradizione cristiana e incursioni nell’ateismo. L’incalzare del protagonista collima a tratti con un ritmo più da format televisivo, dove il registro comico è quasi obbligatorio, per “bucare lo schermo”, qui però siamo a teatro, e richiederebbe tempi e azioni sceniche assai diverse. L’accompagnamento musicale (di Maurizio Picchiò e Stefano Carloncelli) è una scelta da esaltare, dove la musica diventa coprotagonista alla parola recitata, può infondere maggiore forza al testo e alla scelta drammaturgica.
Visto in precedenza in forma di studio, “L’eremita contemporaneo”, (in residenza allo Spazio Off di Trento), di e con Anna Dora Dorno e Nicola Pianzola, con Andrea Vanzo autore delle musiche originali, eseguite da vivo. Una produzione degli Instabili Vaganti affronta l’alienazione del lavoro in fabbrica, la sua disumanizzazione, l’annullamento della fatica nei ritmi ossessivi della discoteca. La parte più convincente è quella della “prigionia” dentro le sbarre metalliche, simbolo di una “prigione”, nella quale l’operaio si ritrova – suo malgrado – a lavorare tutti i giorni. Nicola Pianzola ha sicure doti di performer, prestanza fisica nel non facile ruolo di “schiavo” sottoposto ai massacranti sforzi imposti dalla produzione. Il restante dell’azione scenica e drammaturgica perde di originalità, sembra non trovare una sua coerenza, e perde di pathos.
Convince Marco D’Agostin in “Viola”, danza pensata come un viaggio interiore, sulle incognite di un’identità sospesa tra forza e fragilità, con una forte propensione a rinunciare a schemi prefissati, confini di vita, esaltazione del doppio di ogni essere umano. Il corpo maschile e virile subisce una trasformazione graduale fino a raggiungere le sembianze opposte, ambigue, dove la definizione che la natura assegna grazie ai genitali, sparisce e crea qualcosa di non definito.
Con “A tua immagine”, si è visto un lavoro ben calibrato, ironico, giocato sulla ribalta da avanspettacolo, da compagnia di giro. A tratti meta-teatrale, genere commedia dell’arte, ritmi incalzanti, una girandola di effetti, che la Compagnia Odemà sa dosare sapientemente. Dio è donna e la sua divinità è esaltata dalla bravura di Giulia d’Imperio, (la scuola è di Emma Dante), la quale decide di mandare sulla terra Gesù (Enrico Ballardini), suo attendente con il compito di impossessarsi di tutto. Satirico quanto basta, dissacrante senza mai cadere nel banale e nell’ovvio, la messa in scena piace e diverte, lascia spazio al ripensamento post-spettacolo, dove il teatro assolve la sua funzione principe di comunicare un messaggio. Il diavolo è interpretato da Davide Gorla, autore anche del progetto drammaturgico.
L’errore di voler ridurre a scene didascaliche la vita e le opere dell’artista Egon Schiele, non premia la riduzione per il teatro creata dai Labit (Gabriele Linari e Ippolita Nigris Cosattini). Una sequenza di collage, sovraesposti, eccesso d’idee e poca compattezza nel raffigurare in minimi termini, la biografia complessa del pittore austriaco visionario, morto prematuramente a soli ventotto anni. “Ogni cosa è viva”, paga il tentativo di voler raccontare per immagini, dialoghi, una struttura narrativa poco incline alla teatralità e alle sue regole sceniche.
Lo scetticismo dei primi minuti durante la visione di “Aspettando Nil” (La fabbrica) si stempera grazie al ritmo della recitazione di Elisa Bongiovanni e Giada Parlanti, madre e figlia: un legame simbiotico, irreale e per questo drammaticamente vero, spunti di perversione affettiva, accomunate dall’attesa di un uomo che le cambierà destino e regalare loro una nuova vita. Evidente l’omaggio al teatro di Beckett, con alcune trovate sceniche di sicura maestria registica, come il filo che cuce il vestito e il saggio delle coniugazioni dei verbi come prova necessaria per “debuttare” in società, della figlia, sottomessa dalla madre.
Prova corale energica e registica per un “Ubu Rex” che richiede atletismo fisico, ritmi serrati, molta fatica e sudore. La Compagnia degli Scarti porta in scena il coraggio di non cedere alle difficoltà di spazi deputati alle prove, recitazione, finanziamenti esigui. La regia di Enrico Casale favorisce la movimentazione continua, sa usare bene la scena, riempie gli spazi, inventa originali azioni create da ben dodici attori molto volenterosi, alcuni sicuramente più dotati degli altri. La recitazione non è uniforme, ma l’entusiasmo nell’impegno dimostrato, è segno di vitalità. Non è poco.
Assolto il loro compito, i Fiancheggiatori si sono congedati dal festival, ripartendo per altre mete. Il critico ha lo sguardo sempre rivolto verso un nuovo orizzonte.
crediti fotografici di Andrea D’Ambrosio