RUMOR(S)CENA – A quanto pare sono state le misure stabilite per contenere l’epidemia da Covid19 a mettere insieme una casa editrice che nella sua presentazione si definisce “dedicata alla bibliofollia, alla passione di possedere, di sognare di possedere o di discettare di possedere qualsiasi cosa inerisca il libro, dall’oggetto in sé all’anima del suo autore” e un avvocato alla sua prima pubblicazione letteraria.
Robin edizioni si racconta sul sito www.robinedizioni.it attraverso le parole di Claudio Maria Messina e attraverso un catalogo che incuriosisce per la densità dei titoli, che spaziano dai classici alle nuove voci, Giuseppe Avolio si racconta cimentandosi nella poesia con “Digitalis”; un editore ed un autore, che in questo incontro sembrano essersi scelti per dare luce l’uno all’altro, diventano per chi legge una doppia scoperta, un curioso dono di quella pandemia che, ingabbiandoci nostro malgrado, ci ha obbligati a dare una cifra molto diversa al tempo, a cercare altri spazi di quotidianità.
Così Giuseppe Avolio, nato a Napoli e cresciuto a Merano, laureato in giurisprudenza, ricercatore, traduttore, editorialista, imprenditore e avvocato, trova durante il lockdown una sua strada verso la poesia, e lo fa con un resoconto asciutto, quasi cinico, della coscienza della propria vita interiore.
Spesso la vita ci mette davanti ad un “prima” e a un “dopo” al quale non possiamo sottrarci, ma è raro riuscire a cristallizzarlo con rapida lucidità. Questo deve aver colto l’editore, che pubblicando nella sua collana “Libri per tutte le tasche” i venti cammei di Avolio gli riconosce lo status di poeta.
La chiave del tutto è già dichiarata nel titolo “Digitalis”, e si esplicita nella ricercata metafora del Giardino della Giudecca a Venezia.
Una pianta spontanea ma preziosa, che fin dall’antichità cura gli scompensi cardiaci, trasformandosi in veleno letale se sovradosata; raffigurata da Vincent van Gogh nel ritratto del dottor Gachet, causa della morte di Cangrande della Scala, rifugio di fate nelle fiabe nordiche.
Un giardino dall’accesso inibito ma dichiarato Monumento Nazionale, che ha conosciuto i passi di Marcel Proust e di Rainer Maria Rilke, di Henry James ed Eleonora Duse, le cure botaniche della principessa Aspasia di Grecia e l’idea romantica dell’ultimo proprietario, l’architetto Frederick Hundertwasser, che lo volle sigillato e silenzioso dietro gli alti muri che custodiscono la crescita di una vegetazione selvaggia, senza alcun intervento da parte dell’uomo.
Venti cammei, che se fossero stati diversamente strutturati avrebbero potuto essere haiku giapponesi, componimenti dell’anima dove il non detto prevale sul detto, dove gli accenni sono talmente sottili da diventare ermetici nella loro spoglia semplicità.
Un racconto di sibilline suggestioni, molto di più di un divertissement per ingannare il tempo al motto di #laculturanonsifermaiorestoacasa; un viaggio sensibile, che si dipana nella mente chiedendosi se è dato condividere la strada con chi cammina con un passo diverso.
Considerato il titolo, se come diceva Paracelso “Omnia venenum sunt; nec sine veneno quicquam existit. Dosis sola facit, ut venenum non fit”, di certo Avolio non ha sbagliato la dose.
Giuseppe Avolio, “Digitalis”, Robin edizioni, Torino 2022