Cinema, Recensioni Film — 03/08/2022 at 10:17

“Jurassic World: Dominion”. Quando Disneyland incontra l’Apocalisse

di
Share

RUMOR(S)CENA – CINEMA- «Piccoli amori», cantava la compianta Irene Fargo, «che ogni tanto è bello ritirare fuori». Tra il ’92 e il ’93 le edizioni DeAgostini acquisirono dalla Granada Television di Manchester “Dinosaurs!”, una serie di documentari – ideata da Allan Segal, presentata dal grande Walter Cronkite – rivolta al pubblico dei giovanissimi. L’uscita in edicola delle videocassette di “Dinosauri. La più grande storia mai raccontata”, titolo italiano del fortunato ciclo, segnò così per i bimbi “di ieri”, oggi trentacinquenni (lo scrivente è uno di loro), un appuntamento irrinunciabile. Storie di denti, ossa, dragoni, uova e piume… tutte ben conservate e ancora adesso esibite, con un pizzico di immatura fierezza, sugli scaffali. Di acqua sotto i ponti ne è scorsa: i colossali “fantocci” d’acciaio, creta e gommapiuma, con le loro movenze sincopate e goffe, strappano giusto risolini, viceversa la pacatezza del ritmo narrativo e del commento nei singoli episodi, l’attendibilità del testo, i ritratti dei primi studiosi o creativi “interpreti” di un mondo scomparso (William Buckland, Gideon Mantell, Richard Owen, Benjamin W. Hawkins) rimangono scolpiti nella mente, più preziosi, in un certo senso, di quanto non credessimo.

La digressione nostalgica è per far capire che Jurassic World: Dominion, terzo capitolo del recente riavvio della celebre saga, sesto se consideriamo le prime pellicole (’93, ’97, 2001), tutt’ora recuperabile nelle arene estive, è certo più adatto a quei “bambini”, se tali sono rimasti, che non agli studiosi o ai patiti della Settima Arte in genere. A meno che, annidandosi tutti nella stessa persona, non combacino. In tal caso la “fortuna” è completa. Sembra quasi di ascoltare Steven Spielberg, coriaceo produttore esecutivo, mentre redarguisce nei corridoi degli Universal Studios il “protetto” (e assai spocchioso) Colin Trevorrow dopo i buoni ma non eccelsi risultati ottenuti quattro anni fa al botteghino dal collega barcellonese Juan Antonio Bayona (ben più talentato, a nostro parere: di lui si guardino The Impossible e il fiabesco A monster calls) con Jurassic World: Fallen Kingdom: «Sapevamo quel che facevamo affidandoci a Juan: toni affilati, più cupi, più veri. Ma il pubblico non ci ha seguito. Stanchezza? No, voglia di rivedere le stesse cose. Provvederò io. Tu, Colin, stai sereno e limitati a firmare».

Isabella Sermon e il temibile Giganotosaurus. Crediti: © John L. Wilson, Amblin Entertainment, Universal Pic. (2022)

Maligno? Eppure la ragion d’essere dei quasi 150’ di Jurassic World: Dominion, insieme all’apprezzabile merito di non sentirli, è tutta compresa, a ben vedere, proprio nella mancanza, pressoché totale, di originalità; nella frenetica composizione, parafrasando il critico Maurizio Cabona, di un mosaico di riconoscibilissimi (e perciò godibili) “cavalli di battaglia” spielberghiani (il personaggio di Maisie [Isabella Sermon], la sua bici e la “proto-naturale” sintonia con il cucciolo di Velociraptor giungono dritte da E.T., i surreali duelli, le fitte sparatorie sui tetti e lungo i vicoli di Malta ci riportano invece al Cairo denso di trappole e agguati de I predatori dell’arca perduta mentre le mandibole del grande squalo bianco in Jaws si sovrappongono a quelle non meno possenti del Giganotosaurus,intento a schiacciare la gabbia protettiva di una scala); nella ripetizione di un identico schema che vede complesse (e abbastanza improbabili) coreografie d’azione alternarsi a parentesi dialogate, ora seriose ora dementi, e “mostruose” intrusioni che complicano sempre di più la corsa dei nostri per mettersi in salvo.

 The Valley of Gwangi (’69), fotogramma. Crediti: © Warner Bros./Seven Arts

Nel frattempo, i Bimbi Cresciuti (Sperduti?) cui prima accennavamo sono già pronti, a metà platea, a chiamare per nome, indicandole, le specie più strambe finora sognate, ammirate unicamente nelle illustrazioni degli atlanti, nei fascicoli del succitato ciclo DeAgostini oppure ripercorrendo, eccitati, da collezionisti, un cinquantennio di cinematografia “giurassica”: nel tempestoso prologo, ad esempio, un incrocio fra un Mosasaurus e uno Stretosaurus emerge dagli abissi e assale un aliscafo; illegalmente importato da un negozio, neanche fosse una paradisea, un Dimorphodon scalpita in gabbietta mentre le guardie zoofile lo portano al sicuro; una mandria di Parasaurolophus bruca placidamente e corre a fianco dei mustang nelle praterie dell’Idaho in un passaggio che fonde insieme Hatari! (‘62) di Hawks e il curioso La valle di Gwangi (‘69) di Harryhausen nel quale vaqueros ed esseri preistorici calpestavano lo stesso torrido Eden di sabbia; c’è anche una bisca maltese dove avanzi di galera organizzano combattimenti clandestini non fra cagnacci bensì fra aguzzi Stygimoloch, Ceratosauri e ringhianti Terapsidi (dopotutto ogni stagione filmica ha la sua taverna di Mos Eisley e ogni taverna, le sue “aberrazioni”); la grintosa pilota Kayla (DeWanda Wise, farà strada), nipote color ebano di Jet Mcquack, dovrà prima affrontare un Quetzalcoatlus, piaga dei cieli, e quindi, sopra (e pure, stranamente, sotto) un lago ghiacciato, l’ennesimo, urlante ibrido, stavolta fra un Avimimus e un Archeopterige “servito” sul grande schermo con una “spolveratina” (non è uno scherzo!) del Vermithrax Pejor del fantasy Dragonslayer (‘81); il faccia a faccia nelle stalagmitiche gallerie tra i pinnati Dimetrodonti, Ellie Sattler (Laura Dern) e Alan Grant (Sam Neill), invecchiata (ma non negli occhi o nello spirito) coppia di “eroi”, rende omaggio, per la gioia degli appassionati, alla sequenza in riva all’Oceano Saknussemm del classico Viaggio al centro della Terra (‘59) di Levin. Le scene di Kevin Jenkins (Star Wars – L’ascesa di Skywalker), le luci di John Schwartzman (Pearl Harbor), i trucchi del John Nolan Studio e della storica Industrial Light & Magic fanno scendere sul pubblico quest’acquazzone di “incantesimi”.

Laura Dern e un tenero cucciolo di Nasutoceratops. Crediti: © John L. Wilson, Amblin Entertainment, Universal Pic. (2022)

Nessun pretesto “forte” che regga la storia? È possibile scorgerlo, come in filigrana. Qui i dinosauri, e in ciò consiste l’aspetto più scioccante e insieme intrigante dell’opera di Trevorrow, non sembrano più incarnare più il Passato Remoto, il Mistero, l’Imponderabile. Sono, all’opposto, ridotti a ingombrante “selvaggina di bosco” (con la quale i protagonisti interagiscono come si interagirebbe con un daino o un cinghiale incontrati per caso), più spesso “merce”, prodotto brevettabile, impacchettabile, “consumabile” che scivola via sotto gli occhi narcotizzati, indifferenti, talvolta calcolatori degli abitanti di un mondo alternativo, presente metaforizzato o futuro prossimo che sia, in cui l’Uomo, una volta sparsi i suoi “virus” sintetici, spacciandoli per incontrollabili manifestazioni del Fato o della Natura, vende salati i relativi “antidoti”, bruciandone, asfissiandone le cavie (locuste morfologicamente alterate, nel caso in oggetto) quando non servono più, come accadeva a prigionieri, oppositori e “indesiderabili” nei regimi del Novecento. Chimere e distopiche illazioni di Ieri nell’universo filmico ideato dal regista (insieme a Emily Carmichael e Derek Connolly) diventano la spaventosa certezza del quotidiano, generando nuove credenze pseudo-religiose e contestazioni, ugualmente pericolose, verso di esse. Verne, Conan Doyle, Burroughs, i “capricci antidiluviani” nella Belle Époque delle tavole a fumetti di Jacques Tardi: dimenticateli. Il Palazzo di Cristallo londinese dove il Sogno Preistorico, nel giugno del 1854, ebbe inizio si involve con Jurassic World: Dominion in un nevrotico luna park, aperto notte e giorno, dove le montagne russe viaggiano in mezzo ai segni veterotestamentari della Fine dei Tempi e un primordiale sciame di locuste infuocate, precipitanti al suolo, simili a “lacrime di Efesto”, prende il posto delle Comete del Malaugurio delle antiche profezie.

Forse abbiamo perso la bussola, forse è tutto più semplice. Dopo l’episodio del Kraken in Aquaman (2018), Jurassic World: Dominion non fa altro che confermare la vera fonte di ispirazione degli sceneggiatori nell’odierna filmografia spettacolare: gli albi di “Topolino”. Non vi fidate? Date uno sguardo al “fetente” di turno (Campbell Scott, non a caso impersonò l’avvocato dell’accusa, tradizionalista cattolico, in L’esorcismo di Emily Rose): oltre a ricordare i “comunisti” secondo Checco Zalone («Figlio mio, li hai visti? L’energia, il saluto al sole, l’ippoterapia…») mettetelo a confronto con lo scienziato miliardario dalle fattezze di rospo nella parodia disneyana a strisce di “Jurassic Park” (dove si parla, fra l’altro, di ingegneria “mimetica” anziché “genetica”); vi accorgerete che le differenze non sono poi tanto nette.

Non ultima per suggestione, la scena in cui la dott.ssa Sattler accarezza, tremante di commozione, un piccolo Nasutoceratops: «Non ci si abitua mai» esclama la scienziata. Quanto è vero. Se sopravvivere per l’Uomo non è più, dunque, una necessità provata, un diritto per cui combattere bensì una pura eventualità nelle mani di Madre Natura, un possibile (ma non sicuro) esito della coabitazione con altre forme viventi («Dobbiamo imparare a convivere» afferma la dott.ssa Lockwood [Elva Trill] nell’epilogo), anche superiori, qualora Egli soccombesse che ciò avvenga, perlomeno, nella piena coscienza del proprio “stampo”, delle qualità che lo hanno reso e ancora lo renderebbero pienamente, autenticamente umano: tenerezza, stupore e… la più importante… l’immaginazione. Staremo a vedere come andrà.

Letture consigliate: Sandrin T., L’Altro totalmente Altro in Id., Insetti giganti e alieni mostruosi. Alterità e animalità nel cinema di fantascienza degli anni ‘50 e ‘60, “Youcanprint.it”, 2016; Del Ninno G., Dinosauri… in Id., L’Italia in fondo al millennio. Cronache e storie alle soglie del Duemila, Gruppo Editoriale «L’Espresso», 2013, pgg. 244-247.

Share

Comments are closed.