PALERMO – “Io, nessuno e Polifemo”, lo spettacolo con cui Emma Dante ha inaugurato a settembre scorso la sua direzione della stagione classica dell’Olimpico di Vicenza, ha debuttato a Palermo, in apertura di stagione del Teatro Biondo, dal 24 ottobre al 2 novembre. Si tratta di uno spettacolo che, dietro un’apparente e, in qualche modo, persino ostentata semplicità di elaborazione scenica, propone molte domande che afferiscono alla vicenda artistica di questa regista e, in generale, alle potenzialità della prassi teatrale contemporanea che non sfugge all’eterno dilemma del rapporto tra teatro e realtà. Lo spettacolo è costruito a partire da una intervista impossibile che la regista, insieme con altri autori, ha pubblicato nel 2008 nel volume antologico “Corpo a corpo”, e in esso figurano oltre a lei stessa, nel ruolo di regista-teatrante-intervistatrice, Salvatore D’Onofrio (Polifemo), Carmine Maringola (Odisseo), la cantante-musicista Serena Ganci (dotata di un’ energia artistica elevata) e le tre danzatrici Federica Aloisio, Giusi Vicari e Viola Carinci che, a commento di quanto accade nel corso dell’intervista, eseguono una bella coreografia, straniante, disarticolata, mai banale, disegnata da Sandro Maria Campagna.
Chi è il Polifemo che la Dante intervista?
È, al di là del suo eccentrico accento napoletano, il totalmente “altro”, l’altro che non può essere assimilato a noi, alla nostra vicenda umana e storica, alla nostra prospettiva sul mondo, persino a quanto noi conosciamo di noi stessi e che certo non può esser detto, profferito, esplicitato se non al prezzo di quella menzogna narrativa e mitologica (o forse meglio si direbbe mitopoietica e fondativa) che è il primo dei gesti violenti che, semplificando la realtà, hanno fondato e continuano a fondare la storia e a renderne possibile la narrazione. Questo Polifemo, che la tradizione mitologica (la prima forma di narrazione storica, prima di degenerare in folklore) tramanda esser siciliano (e di stanza nella costa Orientale dell’isola, appena sotto l’Etna e vicino all’attuale Aci Trezza, dove i cosiddetti faraglioni altro non sarebbero che i massi scagliati dal Ciclope accecato contro l’eroe greco che fuggiva dopo aver dichiarato – ultimo feroce inganno – di chiamarsi Nessuno) è invece napoletano, pacifico, «’nu babbasone… monocolo sì, ma armonioso», e il suo antro oscuro, la grotta che viene violentata dalla curiosità invadente e prepotente di Odisseo, si trova ai Campi Flegrei. Allora, l’intervista serve a cercare la verità e, se non proprio a ritrovarla, almeno a porsi il problema di essa con passione vera e necessaria, serve a lasciare che essa, magari sotto forma di dubbio e/o di saggezza perduta, illumini brevemente il nostro essere.
Ecco: la verità si nasconde, sfugge, resta fuori dal racconto, non può proprio esser raccontata e, se il racconto nella sua semplificazione del reale non può che trasformarsi in menzogna, forse resta solo l’accadimento teatrale a poterla tenere in vita, esprimendola come ferita, come rito ancestrale e infantile, come incendio primario dell’essere.
Sul versante opposto c’è la figura di Odisseo, intorno alla quale la Dante intreccia una riflessione complementare e parallela, efficace proprio sul piano che la regista dichiara esplicitamente di rifiutare, ovvero il piano dello spettacolo. Una riflessione che, tuttavia, non appare convincente e non riesce ad avere la stessa nitidezza concettuale della precedente: Carmine Maringola la incarna con la leggerezza strafottente e “adulta” di chi alla menzogna s’è abituato, alla menzogna come sorriso e seduzione, compromesso e mediazione, alla menzogna come segno politico vincente e come violenza, spettacolo e avanspettacolo. Ma anche in questo caso c’è una riserva di verità imprescindibile: è Penelope, la verità dell’amore vivificante di Penelope, dalla quale pur si allontana mille e mille volte (Circe, Calipso, le Sirene, Nausicaa) senza però poter tagliare definitivamente il cordone ombelicale che lo lega a lei: «Calipso mi rendeva immortale, certo, ma in cambio si prendeva la memoria».
Da qui, dall’incrociarsi esatto di queste due prospettive, deriva la necessità che sia proprio la regista a farsi lucida intervistatrice di Polifemo e partecipe sciamana di quanto accade in scena, da qui si snoda, nel suo asse principale, la riflessione sul teatro che, se non è particolarmente innovativa per quel che concerne la genealogia e la lingua del teatro italiano contemporaneo alla quale la regista si ispira (Eduardo, Carmelo Bene, sicuramente Pasolini, Scaldati), è sicuramente importante e chiarificatrice per quel che concerne la genesi del suo teatro fino all’ultimo lavoro, giustamente fortunato, “Le sorelle Macaluso”: il teatro è il luogo oscuro, dentro o fuori di noi, dove costantemente la verità può far sentire la sua voce (una voce sempre e comunque tenacemente dialettale e diretta, carnale e materna, maleducata e feroce) e può presentarsi in quanto tale superando, con l’inganno puntuale della finzione scenica, la menzogna del racconto che non è destinato ad accadere, ma a ripetersi sempre uguale a sé stesso. Il teatro è, insomma, la grotta di Polifemo prima che arrivasse Odisseo.
Si è scritto più volte e da parte di diversi osservatori che, sotto diversi profili, gli ultimi lavori di Emma Dante (prima de “Le sorelle Macaluso”, le regie liriche, la “Trilogia degli occhiali”, la ripresa della sua Medea, i lavori sulle fiabe) sembrano portare segni tangibili di un’avvenuta maturazione artistica e di un cambiamento della sua consueta (e meravigliosamente potente) scrittura scenica e probabilmente è vero ed ha una sua ovvia necessità, ma la domanda che questo “Io, nessuno e Polifemo” – non deve sfuggire l’eco pirandelliana di questo titolo – sollecita maggiormente è piuttosto un’altra: confessare in scena, esplicitamente e in prima persona, che è l’antro di Polifemo, con tutto il suo magmatico carico di oscurità, di positiva innocenza, di dolore, il luogo dove nasce e vive il suo teatro non è, in qualche modo e paradossalmente, un raccontare proprio ciò che in quanto tale si rifiuta d’esser raccontato e che forse, se raccontato e proprio perché raccontato, svelato, razionalizzato, rischia di svanire nel gorgo della menzogna che si fa storia e della degenerazione folclorica di ogni voce poetica autenticamente dialettale? Si tratta di una complicazione rischiosa (e dunque coraggiosa) del percorso di questa artista, ma certo interessante, necessaria, feconda.
Visto al Teatro Biondo di Palermo il 24 ottobre 2014