MILANO – E’ un’operazione rischiosa procedere per tesi a teatro. Lo è perché se ci si confronta , inevitabilmente l’azione porta a fare un passo indietro (per poter avere una visuale quanto più chiara, ampia e distaccata possibile), mentre, al contrario, il teatro chiama al movimento centripeto di un consesso, che si raccoglie a fare massa attorno ad uno stesso focus. Il ché non significa che in seno all’assembea non ci possano essere pareri discondanti o diversi acmi di reazione/fusione emozionale, né che non si possa comunque scegliere d’imboccare questa, come idea drammaturgica o narrativa vincente (basti pensare al teatro di Paolini o, con tutt’altra coloritura emozionale, all’ “Atropolaroid” di Tindaro Granata, al “Dissonorata” di Saverio La Ruina o a “Terra di Rosa” di Francesca Vaccaro, sempre restando nell’ambito testimoniale di storie di donne del sud). Eppure il rischio resta, perché, a teatro, il coinvolgimento emotivo è forse il guizzo in più, che ci trascina via dalla lettura solinga del fatto (di cronaca) in sé, verso una messa in scena condivisa e trimidimensionalmente emozionale, oltre che documentale. E veniamo a “NO. Storia di Franca Viola” di Chiara Boscaro e con Sara Urban, per la regia di Alessia Gennari, in scena al Teatro della Cooperativa di Milano fino a domenica 5 febbraio 2017.
La storia è quella celeberrima dell’eroina pur senza intezione, prima donna a non sottomettersi al cosiddetto matrimonio riparatore. Siamo a cavallo fra il 1964-65, ad Alcamo, in Sicilia. Una storia come tante, purtroppo, fintanto che restò in vigore quell’articolo 544 del codice penale, che cancellava la pena di chi, reo di aver leso l’onore di una donna, togliendole la verginità all’infuori dell’istituto del matrimonio, si rendesse poi disponibile a rimediare, sposando la fanciulla e accolandosi i costi della cerimonia. Usava così, a quei tempi. E, spesso, questo escamotage veniva utilizzato dai giovani, il cui amore fosse contrastato dalle famiglie. Tutto secondo un rigido “cerimoniale”: la fuitina, ovvero la fuga d’amore con contestuale consumazione, e poi la paciata, cioé il momento in cui, al ritorno dei fuggiaschi, le famiglie si accordavano su modi e tempi del matrimonio. Tutto normale o, quanto meno, assodato dalla consuetudine. Ma la storia di Franca era diversa, perché, Franca, non era scappata consensualmente, ma era stata rapita, ancora minorenne, dall’ex fidanzato, prepotente e mafioso, che non voleva rasseganrsi al rifiuto di chi, per posizione sociale, non avrebbe dovuto osare dirgli di no. La storia di Franca mescola le carte. Dice dell’irriducibilità di una donna (una giovanissima donna, appena diciassettenne) di fronte alla prepotenza del “maschio”, ma anche del “mafioso” o comunque di chi aveva ragioni legate alla posizione economica e sociale da far pesare. Senz’enfasi, né eroismi, ma certo sostenuta da un abbraccio familiare così forte da non farla sentire mai sola nonostante le minacce e le ritorsioni del clan del “pretendente”, Franca disegna una parabola di dignità e fermezza, che nulla concede al plauso o al dissenso degli astanti, restando ferma sulla posizione di chi, se non ha potuto evitarsi il dolore e le umiliazioni del sequestro e dello stupro, non intende però unire al danno la beffa, sottomettendosi alla farsa del matrimonio riparatore. La sua storia, però, è anche la storia di un’Italia, che inizia a farsi delle domande sul secolare status quo di retaggio feudale: e, così, se questa donna, fortissima, ha potuto forsi forza del sostegno della famiglia, i Viola, a loro volta, hanno potuto, in una Sicilia che ancora faceva rima con “cosa nostra”, fregiarsi di un intervento di polizia, che ha dell’incredibile, in quel contesto, e poi ancora di un paese con sacche di tale fermezza e lungimiranza, da fare della protagonista una donna “sposata” (e, quindi, in qualche modo riabilitata dallo stigma di una “colpa” evidentemente subita). Ma la storia di Franca spariglia le carte anche perché pur nel suo riserbo e nella strenua difesa di una vita, che ha lottato per mantenere “normale” e “lontana dai clamori della cronaca”, di fatto ha innescato un meccanismo virtuoso, che a tal punto ha scosso le coscienze e l’opinione pubblica, fino a centrare, nel giro di 30 anni, due risultati apparentemente inauditi: 5 agosto 1981 la legge 442 abroga l’articolo 544 del codice penale (quello sul matrimonio riparatore) e, finalmente, nel 1996 lo stupro verrà riconosciuto come “reato contro la persona” e non più semplicemente “contro la morale”.
Già, ma poi: “Come si racconta, una storia così?”. Questa è la domanda che si pone anche la drammaturga, a inizio partitura, attraverso la bocca dell’attrice coperta da una maschera neutra. Prova a togliersela, andando a pescare nei ricordi di una predolescenza, in cui la dicotomia uomo/donna risultava stemperata, per poi planare all’abberrazione dell’antitesi maschio-macho e femmina sottomessa, invalsa in quella mentalità. E, questa, è senz’altro una prima cifra della storia di Franca Viola, costretta in un sitz-im-leben, in cui nascere femmina era certo uno svantaggio. Ma la scrittura procede per tesi e, assodato che: “A me le storie sono sempre piaciute. Io sono un’attrice e racconto storie”, dicono, in una medesima dichiarazione d’intenti, la drammaturga e l’attrice (Chiara Boscaro/Sara Urban) poi c’intrattengono con quello scampolo di autobiografia a far quasi da ponte verso la storia altrui, per condurci al nocciolo: “Il punto non è la storia, ma come raccontarla”. E via il déjà vu di oggetti di scena, che s’inseriscono nella tradizione di un teatro povero e dalla connotazione schietta, l’escamotage del megafono (prima evoluzione “tecnologica” dello strillone) a sciorinare il “Correva l’anno...” (ricordandone gli eventi salienti), gli stacchetti da avan spettacolo (ahimé senza una fisicità capace di sostenerne la sia pur autoironica credibilità), l’infarcire la narrazione con frasi topiche e riportate negli atti, ma malamente pronunciate (in un dialetto, che non si conosce e che si tratta in punta di forchetta, scusandosi, sì, ma quasi prendendone le distanze…), lo stesso puntiglio quasi da maestrina (saputello e più intento a informare, sciorinando dati, che ad emozionare)… tutto questo certo non agevola quel processo di identificazione, rispecchiamento, empatia e, finalmente, catarsi, che, a detta di chi scrive, è condicio sine qua non del teatro.
Lo stesso abito di scena (un vestitino rosso a pois bianchi con annesso scaldacuore in tinta) cosa ci dice? Troppo anni ’60 per parlare di chi racconta la storia oggi, alla luce delle pur innegabili e sciorinate conquiste guadagnate (si cita il Codice, ma anche la Bibbia, giustamente a stigmatizzare un’ottusità retrograda e senza quartieri); troppo “casalinga patinata del nord” (ergo: troppo lontana da qual sentire) per portarci nella temperie di una Franca, della cui modestia e miseria continuamente si parla. Peccato, perché lo spettacolo è evidentemente frutto di un lavoro approfondito e accurato ma si percepisce la fatica a tradurre la passione documentale in aziona scenica fluida e con-fruibile, appesantendola in un proclama teorico e politico, che non aggiunge nulla di più, ma, al contrario, soffoca il pathos (che il “bruto” sia pure “mafioso” certo aggrava, ma non cambia una situazione da stigmatizzare già per la strafottenza della prevaricazione maschilista, anzitutto, e poi classista). Così, a coronamento della visione, vien da dirselo: che certo è importante la storia (e, con una storia così, c’era davvero poco da sbagliare), ma, in fondo, il come non è questione secondaria.
Visto al Teatro della Cooperativa di Milano, mercoledì 31 gennaio.