RUMOR(S)CENA – MILANO – È consolante imbattersi in giovani compagnie che, con onestà e rigore, si cimentano nella ricerca di cifre espressive originali, non banali. È questo il caso dei fratelli calabresi Antonella e Francesco Carchidi di Tropea, appassionati di teatro fin da piccoli, formati teatralmente frequentando maestri di razza, quali Max Mazzotta e Mariano Dammacco. Dopo varie esperienze, sostanzialmente attorali per Antonella, drammaturgiche e registiche per Francesco, che hanno sortito anche positivi riconoscimenti, i fratelli Carchidi hanno presentato allo spazio PimOff di Milano la loro prima produzione autonoma, Amanda, con i loro nomi in ditta assieme a LaboArt.
La prima battuta che risuona in scena è: “Ci sono cose in un silenzio che non avrei creduto mai”: il verso di una canzone che ha fatto sognare le ragazze e i ragazzi dei primi anni Settanta, specie nell’interpretazione di Mina, ma che, a quanto sembra, riesce ancora a parlare ai giovani di oggi.
Quel motivo musicale, che si udirà anche fischiettato da Antonella, è una sorta di filo rosso che fa da contraltare al tema sotteso dallo spettacolo: l’acufene, cioè un’allucinazione uditiva consistente nella percezione di un fastidioso rumore di fondo.
La lotta di Amanda per liberarsene trascende il fatto clinico, e assume un valore simbolico, quasi un pretesto per mostrarci la conflittuale dialettica amorosa fra due personaggi: la tenera, vulnerabile Amanda e il suo compagno, a un tempo minaccioso e seduttivo, ambedue impersonati da Antonella con l’aiuto di un impermeabile, indossato a volte in modo incongruo, e di un cappellaccio.
La scena è spoglia: solo una piccola pedana circolare, dalla quale verrà estratta una catena, a cingere la delicata caviglia di Amanda. La dinamica del rapporto di seduzione è più suggerita che raccontata, ma ricalca lo stereotipo dell’eterna prevaricazione dell’uomo sulla donna. Nel finale Amanda sembrerà affrancarsene, mentre nella scena ormai vuota rimane solo l’impermeabile, inerte, esanime icona del mellifluo seduttore, e un telefonino acceso, che ci restituisce ancora una volta le note e la voce fascinosa di Mina.
È la vittoria della purezza del silenzio sulla confusa frenesia del rumore? O una parabola sull’emancipazione da un rapporto sentimentale malato?Forse. O forse qualcos’altro ancora. Ma, al di là di queste domande, e delle loro possibili risposte, suscita notevole interesse questa intrigante prova drammaturgica, costruita a quattro mani da Antonella, che ne è anche l’interprete, e da Francesco, che ne cura la regia. Da citare, ancora il discreto contrappunto sonoro di Remo De Vico e l’attento disegno luci di Jacopo Andrea Caruso.
I sessantacinque minuti dello spettacolo scorrono senza tempi morti, e colpisce il rigore della partitura mimica cui dà vita Antonella: un fisico dai tratti adolescenziali, sulla cui identità lo spettatore può rimane inizialmente dubbioso. Poi si manifesta l’intensa comunicativa del volto, quasi infantile, la mobilità degli occhi, e specialmente l’esattezza di ogni sequenza gestuale e coreutica, tanto più sorprendente in quanto Antonella dichiara di non aver mai frequentato una scuola di danza, né classica, né contemporanea.
Ma si apprezza specialmente la scelta drammaturgica e registica che sperimenta una forma espressiva composita, ove il testo si intreccia e viene sviluppato nel linguaggio del corpo, che in modo più immediato e penetrante rispetto alla parola mostra una lotta dolorosa e impari contro la prepotenza, in quale che sia forma, comunicando allo spettatore un’angoscia esistenziale profonda, che suscita emozioni intense.
La scrittura, anche se non priva di qualche ingenuità, contiene immagini suggestive. La loro resa vocale meriterebbe tuttavia una maggiore attenzione, non inferiore a quella prestata al registro gestuale e coreutico del lavoro. Una menda cui la giovane compagnia avrà modo di rimediare.
Visto in anteprima al PimOff di Milano il 19 gennaio 2022