RUMOR(S)CENA – GENOVA – Opera del drammaturgo francese Pascal Rambert, Sorelle nasce da una intenzione dichiarata: rappresentare quasi figurativamente, come su una tela in movimento, l’energia che si sprigiona dal confronto, dal conflitto tra due corpi e due anime poste le une di fronte alle altre anche “indipendentemente” dalle motivazioni di quello stesso confronto/conflitto.
Traslata in scena però, quell’intenzione non può che metamorfizzarsi, quasi aggrappandosi ad essa, in una storia, in una narrazione che a volte qui sembra incapace di determinarsi in una scelta cogente, in un angolo visuale prevalente, che sia psicologico o metafisico, storico o sociologico o di qualunque altra scaturigine, pena il diventare una resa a un certo modo immediato e “impressionistico”, oggi diffuso, di rendere la condizione umana e quella sociale.
Sembrerebbe una sorta di ribaltamento delle intenzionalità che abbiamo ritrovato e continuiamo a ritrovare ad esempio nella drammaturgia “arrabbiata” di tanti britannici o anglosassoni, ovvero nelle angosciose peripezie della mente e delle relazioni umane, disturbate e deformate in una società incattivita anzi, per dirla in metafora, praticamente “in cattività”, che trovano negli autori di area tedesca, da Bernhard ad Handke, fino alla più dolorosa Elfriede Jelinek, i loro più acuti traduttori in scrittura scenica.
Quegli stessi autori, dunque, che attraverso le storie cercavano, riuscendovi, di produrre quella dolente energia interiore che il palcoscenico poteva accogliere. D’altra parte, credo, non sia tanto interessante assistere ad una sorta di arena (qui il palcoscenico) in cui si confrontano e si scontrano le energie avverse di leoni e gladiatori a mostrare le stimmate della morte imminente, quanto piuttosto percepire e seguire un cammino di consapevolezza che tragga senso e motivazione di quel conflitto e da quel conflitto, attraverso una scelta drammaturgica che ne indichi la direzione.
Altrimenti si fa più evidente il rischio, talora affiorante in questo spettacolo, che si disperda quel dolore insieme alle parole per esprimerlo, che scorrono e inondano la scena per poi defluire quasi a caso e quasi senza lasciare vera traccia. Così si accavallano le suggestioni di un conflitto familiare feroce tra gelosia e attrazione, tra mimesi quasi alla René Girard e contrapposizione astiosa, tra anaffettività e tentativi di amore, mentre sullo sfondo lo sforzo impossibile delle due sorelle di fuggire a sé stesse, e a quell’odio/amore, prende le forme quasi dell’approccio ideologico contrapposto (siamo nei momenti precedenti una conferenza sugli interventi in favore dei migranti), nei confronti delle colpe e del pentimento dell’occidente rispetto a povertà e fuga dalle guerre.
La stessa sensazione claustrofobica, che è in fondo la cifra di questa messa in scena, una storia di anime, menti e corpi prigionieri di e tra loro, rischia di rimanere fine a sé stessa mutandosi in disagio se non, un po’ alla volta, quasi in noia. Un lavoro dunque alimentato da intenzioni se vogliamo pregevoli che però sembrano non trovare piena coerenza nello sviluppo drammaturgico, forse per le troppe corrispondenze e le troppe vie d’uscita proposte. Ne è segnale una certa rigidità delle due protagoniste, peraltro conosciute come interpreti di buona qualità, soprattutto nelle controscene, che qui a mio parere rivestono grande importanza, prive di mobilità e sfumature appopriate (le controscene erano una delle modalità attoriali per cui la Duse era nota) che forse ci danno ragione non tanto di una difficoltà registica, quanto di una loro non piena convinzione rispetto ai ruoli previsti nel testo rappresentato.
Produzione TPE – Teatro Piemonte Europa, FOG Triennale Milano Performing Arts. Traduzione Chiara Elefante. Messinscena e spazio scenico Pascal Rambert. Interpreti Sara Bertelà e Anna Della Rosa.
Ospite del Teatro Nazionale di Genova, al teatro Duse, dal 2 al 6 marzo. Pubblico discretamente numeroso e esito contrastante tra applausi e incertezze.