RUMOR(S)CENA – REDAZIONE – Prima la manifestazione “Bauli in Piazza” a Milano che si è tenuta il 10 ottobre scorso con la partecipazione di 1300 operatori del comparto dello spettacolo in piazza del Duomo: 550 bauli utilizzati per le attrezzature di scena disposti ordinatamente e distanziati tra di loro. Il 30 ottobre invece una protesta organizzata dai sindacati in ben 18 città diverse dal titolo: “L’assenza spettacolare” con migliaia di artisti e tecnici, scesi nelle piazze per protestare la chiusura di tutti i teatri e cinema d’Italia, al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica sul rischio di non avere alternative rispetto all’interruzione della programmazione artistica, ora fermata nuovamente con il recente DPCM del governo.
A Milano in piazza Duomo si sono visti tecnici di palcoscenico, macchinisti di scena, elettricisti, fonici, attrezzisti, datori luci, direttori di scena ma anche costumisti, addetti stampa, e altre figure professionale del comparto dello spettacolo, uniti insieme a fronte della grave situazione lavorativa a causa della pandemia. Un’immagine a forte impatto visivo ed emotivo per la geometria disegnata e con gli operatori rivolti verso l’esterno della piazza. Vestiti di nero (come si usa in teatro) e i loro bauli dove vengono collocati gli strumenti di lavoro: i cavi, le prese elettriche, i proiettori. “Bauli in Piazza” sulla pagina Facebook creata dai promotori: «Chiede nuove regole per l’organizzazione degli eventi che ne rendano possibile la sostenibilità economica. Bauli in Piazza nasce come un movimento orizzontale. Lo è, lo sarà finché resterà attivo. Abbiamo aperto a tutti e tutti hanno risposto nell’interesse della sopravvivenza del nostro settore».
Tiziano Rossi, presidente di Esquilibrio Teatro e Art Director – creativo dell’associazione Loft39, attore, regista, formatore teatrale si è diplomato all’Alta scuola in pedagogia ed educazione alla teatralità. Ha lavorato come tecnico con la Compagnia di Grock e fondato due scuole di recitazione a Pavia. Rossi è anche un tecnico specializzato capace di «esercitare tutte le discipline di palco, video, proiect manager, per tutti gli eventi nel campo dello spettacolo e degli eventi – ci racconta nel corso dell’intervista – vivendo di questo da venticinque anni. Insegno recitazione ma ho lavorato sia nel teatro che nel settore dei grandi eventi».
Tiziano Rossi insieme ad un gruppo di colleghi ha saputo coinvolgere tutte le maestranze artistiche del suo settore, portarle in piazza a Milano (con tutte le precauzioni sanitarie richieste), creando una sorta di evento-protesta pacifica ma con evidenti contenuti politici: la progressiva agonia del settore quasi fosse un’elegìa funebre sul quale è stato interpretato e scritto di tutto dai giornali. La carriera di Tiziano inizia precocemente e si evince come sia un professionista capace di aver seguito con costanza e determinazione la volontà di lavorare in un settore trainante per la cultura in generale, ora sotto scacco per l’emergenza da Covid-19, ma anche per cause pregresse e mai affrontate seriamente; sia sul fronte sindacale, sia sulla gestione da parte di chi lavora in prima persona. «Io ho iniziato a lavorare a 16/17 anni e a 18 organizzavo già concerti di musica Rockabilly – racconta Tiziano Rossi – e a 20 sono stato eletto consigliere comunale. Il mondo dello spettacolo e la passione per questo lavoro lo posso quantificare in un terzo della mia vita. Da quando abbiamo dovuto fermarci il 23 febbraio scorso, io ho iniziato a mandare il mio curriculum ad altri settori professionali per spendere le mie competenze».
L’iniziativa di portare in piazza Duomo a Milano i vostri bauli com’è nata?
«Avevamo visto una manifestazione che si è tenuta a Valencia (1) e un’altra a Bilbao (2) con i nostri colleghi spagnoli e dei Paesi Bassi e ispirandomi a loro ci siamo attivati, inviando messaggi, creando l’evento su facebook, e scrivendo con una mail dedicata. In sole 72 sono arrivate centinaia di telefonate e messaggi di adesione e a quel punto abbiamo organizzato la manifestazione in piazza Duomo coinvolgendo tutti. Le adesioni sono arrivate dagli uffici stampa, da tantissimi tecnici e io ed altri sei colleghi abbiamo creato il gruppo organizzativo coinvolgendo altre 40 persone per dividerci il lavoro. Ognuno doveva fare la sua parte. L’intento era quello di manifestare in silenzio, non dire nulla, non cantare o parlare ma rivolgersi il nostro intento dialogando con le persone giuste. Le spese però erano alte. Abbiamo poi deciso – prosegue uno degli organizzatori di Bauli in Piazza – di fissare una data di ripartenza provocatoria: il 31 gennaio prossimo. Tutto il comparto trasversale ha aderito e sono arrivate 1300 persone con l’intento di sollevare il problema come un’istanza politica – sindacale.
Un progetto chiaro capace di creare un evento organizzato perfettamente e con tutti i protocolli sanitari rispettati (la piazza era stata suddivisa con il distanziamento necessario dopo aver ricevuto l’autorizzazione da parte delle istituzioni preposte, ndr)». Tiziano Rossi è un professionista che sa agire con estrema cautela e spiega che la loro iniziativa non voleva essere un semplice grido di protesta, anzi: «Abbiamo recepito i nuovi Dpcm del governo e non siamo né stupidi né sognatori ad occhi aperti! Ora dobbiamo puntare a studiare i protocolli per il giorno in cui si potrà riaprire e ripartire (i teatri erano stati riaperti da poco, ma con il Dpcm di pochi giorni, fa gli artisti sono stati costretti a interrompere tutta la programmazione faticosamente riavviata, ndr), e sostenere convintamente le nostre istanze sindacali – le richieste di sostegno economico e i gap contrattuali, altrimenti il comparto dello spettacolo rischia il crollo totale.
Perde le sue maestranze, ogni investimento fatto e le sue risorse. Il settore oggi paga un problema organizzativo nato in passato e mai affrontato seriamente. Le mille contrattualizzazioni diverse, intermittenti. Promettere i 600 euro a marzo e ancora ad ottobre non tutti li hanno ricevuti. È necessario seguire delle opportunità come la coesione del dialogo con le diverse categorie, parlarci tra di noi e avere una coscienza di settore, un’unica coscienza necessaria per affrontare il futuro (come allo stato attuale appare sempre più necessaria, ndr). Nel nostro comparto le competenze e le maestranze cambiano a seconda dei settori specifici. Dobbiamo adattarci ai cambiamenti del settore e diventare spendibili in tutti i comparti e creare un maggiore equilibrio».
La scelta a Milano per farvi conoscere e ascoltare dal governo e dalle istituzioni non è casuale. I media ne hanno parlato su tutti i canali televisivi e sui giornali. Da questo punto di vita avete raggiunto un ottimo riscontro.
«Milano è la capitale teatrale italiana e molto del lavoro artistico si concentra in questa città. Bisogna ricordare che all’estero è diverso e gli artisti sono più tutelati. Il PIL (Prodotto interno lordo, ndr) che viene dal nostro settore crea ricchezza, reddito per le famiglie e per le imprese. In Italia siamo 570 mila addetti e un numero complessivo di un milione e mezzo (se si includono i famigliari) e produciamo 65 miliardi di fatturato in un anno che vanno ad incidere sui circa 36 nel Pil annuale complessivo. Per il nostro lavoro vengono occupate il 40% delle stanze d’albergo. È necessario creare una concertazione e un movimento olistico per ottenere sussidi e convenzioni ma anche investire sulla preparazione e formazione. Un appello del nostro settore rivolto a tutte le istituzioni. Con il fermo dello spettacolo ci saranno delle conseguenze anche per le aziende che producono materiali per la scena e si vedranno costrette a licenziare i loro dipendenti, gli operai».
Un effetto a catena che si riversa sul sistema economico nel suo complesso. Quali possono essere delle proposte per rimediare a questa crisi?
«Il sistema capitalistico dimostra di essere un ecosistema economico fragile. Io credo sia necessario investire nella formazione continua e le aziende devono investire per poter restare sul mercato. Bisogna trovare delle risorse per far ripartire anche l’economia del nostro settore. Scrivere delle regole per poi ripartire con protocolli, sovvenzioni e rilanciare l’economia. Ecco perché siamo andati in piazza con i nostri bauli vuoti senza che dentro ci fossero i nostri attrezzi di lavoro. Servono nuove iniziative e appoggeremo i tavoli di lavoro. Grazie ad una raccolta fondi abbiamo potuto sostenere le spese affrontate. Tanta gente comune ci ha versato un contributo per pagare le 1300 magliette indossate e le 1300 mascherine per proteggerci».
La situazione attuale è ancor più grave di quando si è svolta la manifestazione a Milano il 10 ottobre scorso. Attualmente oltre i teatri e i cinema chiusi anche altre categorie professionali sono state colpite dalla nuova recrudescenza del SarsCov2 o corona virus, obbligando a chiudere gli esercizi commerciali in anticipo la sera, limitando gli spostamenti e creando nuove zone rosse con il cosiddetto “coprifuoco” (espressione in vigore poco consona che rimanda a scenari di guerra) alle 20 o alle 21 a seconda delle Regioni.
Tra i tanti commenti apparsi su Facebook va segnalato quello di Irina Casali direttrice artistica di Acting languages Academy a cui abbiamo chiesto l’autorizzazione a condividerlo.
«Il Covid-19 non ha ucciso il mondo dello spettacolo. Lo spettacolo regna sovrano ovunque, dai talent ai talk show, dai salotti ai reality. Il teatro ne è stato da tempo inquinato, come ogni aspetto della società. Sempre più social e sempre meno reale. Inessenziale. Siamo invasi da quella che Steiner chiamava “pornografia dell’insignificanza”. L’arte in questo paese non è morta a causa del virus, giace da molto tempo inascoltata, negletta, rimossa. Il grido autoreferenziale del mondo dello spettacolo suona tristemente distorto dal suono delle sirene. Sirene a cui hanno ceduto tutti coloro che hanno scambiato i sogni con il pane. La comprensione articolata del presente, plurimo, contraddittorio, irriducibile ad una sola spiegazione, necessita di coraggio, che alle volte significa silenzio, umiltà, ascolto.
Sospensione. Riflessione. Se gli artisti desiderano davvero compiere il ruolo che nella storia hanno avuto, in questo momento dovrebbero meditare prima di gridare allo scandalo, rischiando di alimentare un clima di rabbia incontrollata, dove è facile fare di ogni erba un fascio.
O peggio, molti. Rinunciare al bisogno di esibirsi a tutti i costi, di volere stare al centro del palco, sarebbe auspicabile. Il tempo può essere usato per farsi delle domande. Io faccio parte di coloro a cui chiedo lo stesso esercizio. Forse più complesso ma anche più profondo. Ci sentiamo tutti indispensabili. A cosa?
Bisogna discernere e separare il grano dalla pula. Mai come in questi giorni i quotidiani hanno dedicato le prime tre pagine di apertura alla “protesta della cultura”. Non dice nulla questa improvvisa, strumentale, ipocrita ed estemporanea presa in carico? Cultura che si è prostrata ai bandi delle fondazioni bancarie che impongono il cosa e il come, governando la produzione di prodotti di consumo seriale, e che oggi balbetta la propria contrarietà a questo modello.
Ben vengano le prese di distanza e messe in discussione, benché giunga un po’ tardiva la protesta dei grandi direttori di teatri o di dipartimenti universitari, dove anche la ricerca scientifica ha subito le stesse sorti della cultura, governata dalle leggi del mercato, che ha visto finanziati modelli predeterminati da chi eroga i contributi. Di questo il Covid-19 non ne sapeva nulla. Si è trovato un’autostrada spianata perché a queste “leggi” metafisiche, oltre ai sogni, ai desideri e alle idee, si sono immolati anche i diritti fondamentali. Poco a poco ci siamo ritrovati in un Paese di servi che ringraziano ossequiosi l’elemosina di un signore senza volto.
La dignità è coerenza. E la voce di chi ha il coraggio di ribellarsi all’ingiustizia sarebbe bello udirla in tempi di “normalità”. Questo virus ha il merito di aver scoperchiato i buchi di un sistema che produce cadaveri da parecchio tempo. Per onestà intellettuale occorre chiedersi la ragione profonda della propria protesta, rivedere le priorità uscendo dalla prospettiva singola, emergenziale e pure legittima (personalmente non godo di alcuna copertura governativa rispetto alla chiusura del teatro dove lavoro) da cui parte quella richiesta. Il valore sociale dell’arte è da rimettere al centro non per via della crisi momentanea dettata dalla pandemia (le dittature non hanno mai chiuso i teatri, se ne sono servite) mettendo in discussione le forme e lo statuto dell’arte stessa, che si è sgretolata inseguendo modelli di consumo e di fruizione di un sistema economico di cui è semplice rappresentazione. Sarebbe un’occasione di ripensare il proprio ruolo alla radice, senza autocompiacimenti o vittimismi sterili.
È un momento importante, vitale, se sappiamo ascoltare il vuoto, la mancanza, l’urgenza profonda. Il non-senso, se accettato, può mutare nel suo contrario, offrire un orizzonte. Da questo vuoto ad essere si può rinascere.
Il pubblico, inteso come valore e diritto collettivo, scuola, sanità, cultura possono e devono ritornare al centro, scardinando un liberismo sfrenato a cui in molti hanno ceduto e in pochi si sono opposti negli ultimi decenni».