RUMOR(S)CENA – KANATA – ROBERT LEPAGE – THÉATRE DU SOLEIL – PARIGI – La bufera culturale e mediatica che ha colpito Kanata – Épisode I – La Controverse, del regista canadese Robert Lepage, ha rischiato di mettere in ombra la qualità artistica di uno spettacolo tra i più ricchi e completi della scena teatrale europea del momento. Kanata ha in sé una storia dentro la grande Storia, la visione dell’arte come parola sociale, un impianto scenografico di grande impatto estetico, la celebrazione di un idioma, e la qualità attoriale dei 35 interpreti del Théatre du Soleil di Ariane Mnouchkine, qui “prestati” al regista canadese. Kanata, (in scena alla Cartoucherie de Vincennes dal 15 dicembre al 31 marzo 2019), non ha mancato di incorporare, trasfigurato attraverso la figura di Miranda (Dominique Jambert), una giovane pittrice francese trasferita a Vancouver, la volontà di raccontare dell’altro e la sua terra, pur non essendo l’altro.
Questa in estrema sintesi la colpa attribuita a Lepage dalle comunità autoctone del Canada. Una sorta di appropriazione culturale non autorizzata che ha armato di più o meno buoni motivi (a seconda dei punti di vista) le associazioni di nativi, per contestare e contrastare il lavoro di Lepage e messo in dubbio la realizzazione dell’evento. La diatriba ha fatto perdere per strada le sovvenzioni già stabilite, e ha costretto Ariane Mnouchkine a volare in Canada e affrontare le forti rimostranze dei gruppi autoctoni, contrari al progetto artistico anche per la mancanza sul palco di attori nativi. La presenza di scene di violenza ha contribuito ad accrescere la questione sui diritti del teatro nel mettere in scena i drammi di una nazione. Infine una mediazione è stata raggiunta e le richieste in parte raccolte. Nella rappresentazione sono stati inseriti contenuti tratti da documenti e testimonianze ricavate dagli archivi di Stato, per garantire un surplus di fedeltà storica.
Difficile pensare di buttare all’aria un lavoro che aveva in sé le migliori intenzioni di indagare nella storia del colonialismo e del postcolonialismo. Dunque nel rispetto del politicamente corretto, e della libertà dell’artista si è resa arte la diatriba stessa. “Kanata” significa “villaggio” in lingua iroquoiana, l’intento è dunque la rievocazione del prima ancestrale, prima della conversione religiosa forzata, prima del confinamento dei Metis e degli Inuito nel limbo delle Montagne Rocciose. Ma anche del poi, fino alle tragiche pagine di cronaca recente e recentissima che raccontano di periferie degradate e insanguinate e di misteriose sparizioni di donne.
Kanata denuncia l’ emarginazione dei primi popoli e le ferite del passato coloniale, degli abusi, delle violenze sessuali e psicologiche, delle persecuzioni nella nefasta opera di conversione religiosa. Inquieta il cuore della storia: i 49 omicidi avvenuti a Vancouver tra la fine degli anni 80 e il 2001, della carcerazione di Robert Pickton (Maurice Durozier) allevatore di maiali e della sua agghiacciante ammissione strappata da un compagno di cella (Duccio Bellugi).
A essere uccise furono tutte donne, per la maggior parte, tossicodipendenti e prostitute che frequentavano la zona a est di Vancouver. Uccise, fatte a pezzi e sepolte in quegli stessi campi dove l’uomo cresceva maiali.
Giovani adescate nel quartiere di Downtown Eastside, che il fotografo Lincoln Clarkes aveva immortalato nei suoi scatti per denunciare e per dare voce e dignità ai loro volti, ai corpi, ai gesti, senza sapere che il suo atto artistico e politico sarebbe stato prezioso per le indagini della polizia, per anni negate. Dalla prospettiva del regista i crimini di Pickton rappresentano “il culmine della condizione di emarginazione in cui sono vissute le popolazioni indigene canadesi dagli anni ’80 sino ad oggi”. La condizione delle donne native di Vancouver diviene qui emblema di una ferita ancora aperta. Ma la storia di Tanya, autoctona eroinomane trucidata dal serial killer, ci appare anche come una via crucis dei nostri giorni restituita al pubblico in equilibrio tra realtà e finzione, dove anche il linguaggio è scarno e minimale per colpire come una ferita. Rimanda all’attualità violenta dell’oggi, consumata nel quotidiano, che predilige vittime donne (in Italia 3mila dal 2000 a oggi) e obbliga a rifiutare i fatti come un’ infinita serie di eventi di cronaca nera per rendere universale la tragedia e per tentare di indagarla con tutti gli strumenti a disposizione, dal teatro alla psicoanalisi.
Kanata è anche una storia d’intesa di due donne diverse per origine e condizioni e del rispecchiamento della tragica fine di una nell’arte dell’altra, come se la scomparsa di un corpo e metaforicamente di un mondo e della sua cultura, potessero essere risarciti dal gesto artistico. Ed è in questo gioco che il teatro si lancia senza imporselo a priori. “Non occorre essere nero per raccontare i neri. Nè poveri per raccontare i poveri.” E allargando l’orizzonte dell’empatia che si fa cura e cultura, nemmeno occorre essere lebbrosi per curare la lebbra. Corre dunque lungo tutta la messa in scena l’interrogativo sul perché della narrazione di una storia altrui, prima negata e infine strappata ai legittimi proprietari, come suggerisce la scena in cui la donna scappa tentando di mettere in salvo il figlio proteggendolo tra le braccia mentre al lato della scena un predicatore in abito talare osserva, convinto di portare, lui, l’unica verità a tutti i figli. E come suggerisce il sacro totem, anima stessa dei nativi, abbattuto senza coscienza né conoscenza, assieme agli alberi, per mano dei coloni bianchi, mentre il grido soffocato dei primi abitanti delle foreste è travolto dai frastuono delle motoseghe.
Spettacolo duro, vero e straniante, che alterna la cruda realtà di una generazione alla deriva tra droga e alcol, di giovinezza perduta nelle strade dei quartieri ai margini, destinata a danzare nella spazzatura, a momenti di leggerezza. Come nei goffi tentativi di una difficile integrazione per chi viene da fuori alla ricerca di fortuna, vedi il velleitario compagno di Miranda, (Sabastien Brottet) che non trova il giusto accento nella lingua del paese che lo accoglie (Sylvain Jailloux le coach d’accent).
A chi ha perduto l’identità e la terra non resta che lasciare in eredità alle generazioni che seguono l’impronta dell’esclusione e il destino del degrado. Per chi al contrario quella identità ha profanato risulta allettante farsi fruitore di ciò che di buono si potrebbe ancora portare via, come il folklore locale e le preziosità conservate nei musei, la sempre brava e intensa Shaghayegh Beheshti. La realtà pungola costantemente, dolorosa sotto i nostri occhi poi prende forme allucinate e poetiche come nella scena della canoa sospesa a mezz’aria, che ruota e si rovescia su se stessa. Rallenta il tempo e diventa mito. Miranda, danza sfidando la gravità mentre il cielo il fiume e la terra si confondono in una visione drogata e mistica, fino a ricadere nella realtà prosaica del letto nel loft in affitto alla periferia di Vancover.
Un affresco finale di grandi pennellate immaginarie di Miranda, che nel dramma ritrova ispirazione, chiude la pièce mentre riempiono la scena tutti i personaggi in un sogno di integrazione possibile. Pubblico in delirio. Abbraccia con applausi e ripetuti bravo .. bravo.. la storia di un popolo che ha dovuto aspettare il 2008 per avere riconoscimento pubblico e pubbliche scuse dallo Stato e benedice un teatro che trascende le identità e le rappresenta con giustezza e cuore.
Visto alla Cartoucherie de Vincennes di Parigi
In scena a Napoli Teatro Festival Italia, dal 27 al 30 giugno e Atene nel festival Athens & Epidaurus Festival, dal 12 al 16 luglio