ROVERETO – A quasi due anni dal debutto, la pièce di Charles Dyer “Quei due“, interpretata da Massimo Dapporto e Tullio Solenghi (per la prima volta insieme nel dividere la scena), per la regia di Roberto Valerio, conferma il suo successo di pubblico e l’ottima intesa dei due protagonisti. Scritto nel 1966 e rappresentato per la prima volta, nello stesso anno, dalla Royal Shakespeare Company, “Staircase, a sad gay story” è stato trasposto cinematograficamente nel 1969 con Richard Burton e Rex Harrison. In questa versione teatrale, l’adattamento del testo, a cura di Massimo Dapporto, ha sfrondato molti degli aspetti più pesanti della drammaturgia, alleggerendo i toni pur lasciando spazio ad una riflessione amara che prende le mosse dalla repressiva legislazione inglese degli anni Sessanta (la “lugubre giustizia anglosassone”, in cui l’omosessualità era considerata reato perseguibile) per invitarci, ancora oggi, a non abbassare la guardia in fatto di diritti e pregiudizi.
I nomi dei protagonisti, una coppia ormai agée, sono l’uno il nome stesso del drammaturgo, Charles Dyer, l’altro il suo anagramma, Harry C. Leed. Massimo Dapporto interpreta il primo, un ex attore in disarmo che ha ripiegato sul mestiere da barbiere, condividendo lavoro e bottega, oltre che vita, con il compagno Harry (Tullio Solenghi), originale proprietario del “barber shop” in cui tutta la vicenda si svolge. Charles ha un passato eterosessuale, è stato sposato ed è in attesa della figlia che non vede da quando è nata, oltre che di una comparizione davanti al giudice per oltraggio alla morale. L’azzeccata scenografia di Massimo Bellando Randone, giocata nei toni tra il grigio e il bianco sporco, corredata di pochi orpelli, ci trasporta nei polverosi umori dell’East End londinese dell’epoca. Epoca cui la rappresentazione è rimasta sostanzialmente aderente (anche nei costumi di Moris Verdiani), pur con qualche riferimento a tempi più recenti, inserito però solo a livello di citazione (come l’accenno che il personaggio di Solenghi fa ad Alan Turing, di cui si legge il valore da una prospettiva più vicina a noi rispetto a quella degli anni Sessanta). Ne emerge uno spettacolo divertente, con momenti di piccole grandi tragicità, senza la cupezza del testo originale.
A colpi di battute si denunciano ipocrisie, quelle della società retriva e bigotta nella quale vivono, ma anche – sottilmente – quelle che caratterizzano ogni convivenza; queste ultime esasperate, qui, dalla necessita di mantenere la segretezza sulla relazione. Tra un discorso e l’altro, si sciorinano locuzioni che oggi fanno raccapricciare, come il termine “normale” riferito all’eterosessualità, denuncia di una forma di vessazione psicologica alla quale i nostri due protagonisti non scampano, lasciando affiorare a tratti il disagio di sentirsi “diversi”, “sbagliati”, “fuori posto”.
La regia punta decisa sulle ottime capacità espressive degli interpreti, la cui energia trascina il pubblico nell’alternarsi di farsa e dramma in uno spaccato esistenziale indicativo delle dinamiche psicologiche della coppia, mantenendo un ritmo coinvolgente sottolineato qua e là dalle note di “Night and day”. Nella progressione narrativa si succedono siparietti gustosi, si rivelano le piccole manie, i continui punzecchiamenti, i gesti ripetuti, nostalgie e rimpianti (Charlie: “Che bei sogni avevamo!”), seguendo il tempo che passa inesorabile (Harry: “E invece divento calvo..”) e che, tuttavia, li vede ancora insieme, a condividere una sussidiaria quotidianità non certo semplice o priva di contraddizioni, di ripicche, di rancori malamente repressi e di piccole e grandi bugie, ma ricca di affetto, solidarietà e una fortissima dose di pungente ironia (Harry: “Forse è proprio con l’ironia che ci siamo salvati”). Ed è l’ironia che permette alla relazione di salvarsi, di perdurare, forse di rafforzarsi, nonostante un lungo non-detto che emerge, scoppiando come una bolla e mettendoli di fronte alla propria condizione e alla propria cifra caratteriale (Charlie: “Tu sopporti l’anonimato, io invece lo odio!”).
Harry, permaloso e all’apparenza più frivolo, si dimostra in realtà la personalità “accudente” tra i due: accudente nei confronti del proprio compagno, di cui metabolizza – seppur “teatralmente” – debolezze e rodomontate, e accudente nei confronti dell’anziana madre, confinata, dalla malattia, al piano superiore della bottega di barbiere in cui tutta la vicenda si colloca. Solenghi ne svela gradualmente la tipicità interiore, mantenendone i toni graffianti, piccati e talvolta eccessivi che lo contraddistinguono, e giocando abilmente con le sue idiosincrasie. Nel suo Charlie, Dapporto ben sostiene l’equilibrio tra durezza, inquietudine e fragilità, rendendo pienamente tutta l’umanità del personaggio (ancora non completamente risolto nell’affermazione di sé) allo sgretolarsi dell’esile castello di menzogne che ha ammannito al compagno per anni.
Compassionevole senza mai perdere di humor, anche nei momenti più amari, questa gradevole messa in scena cavalca con leggerezza il cliché senza abdicare alla tensione sottesa della vicenda né alla complessità delle reazioni e dei sentimenti che vi soggiacciono. Alcune battute lievi, lanciate con noncuranza al pubblico, proprio per questo colgono nel segno e fanno riflettere su un’aberrazione sociale di un’epoca non poi così distante dalla nostra: “Amarti alla luce del sole…”, dice Harry al compagno. Nell’alternanza sapiente dei pesi scenici, l’interdipendenza dei due protagonisti si dipana in una partita a due tutta giocata su una prossemica a rimpiattino, in cui i momenti di contatto fisico sono ridotti al minimo, fino al bel finale, volatile e arioso, che, pur nell’irrisolutezza del dramma, chiude la pièce su una nota di speranza e cui il pubblico tributa, meritatissimi, calorosi e prolungati applausi.
Visto al Teatro Zandonai di Rovereto il 30 marzo 2017