RUMOR(S)CENA – REDAZIONE – CAGLIARI – Notizia pubblicata in data 5 agosto alle 17.49 e diffusa lo stesso giorno.
Un titolo che fa pensare a una pièce teatrale, o magari a un film: “La Schivata”. La storica cooperativa Teatro di Sardegna, già Teatro Stabile e ora TRIC Sardegna Teatro ha scelto di non partecipare al nuovo bando per l’assegnazione – per i prossimi due anni (prorogabili a tre) del Teatro Massimo di Cagliari. Una decisione sicuramente difficile e sofferta, che il TRIC Sardegna Teatro ha annunciato pubblicamente alla città e agli spettatori in una conferenza stampa straordinaria nel foyer con tema (e titolo) “La Schivata” (appunto). Fin dalla riapertura nel 2009 il Teatro Massimo è divenuto infatti “la casa” della compagnia cagliaritana, dopo la chiusura del Teatro Alfieri, per acquisire sempre più, con progetti come il “teatro abitato” portato avanti dall’allora direttore artistico Guido De Monticelli un ruolo fondamentale di presidio culturale nel cuore di Cagliari. Nella memoria dei cagliaritani sono ancora impressi i fasti del Teatro Giardino progettato da Oddone Devoto ed Emilio Stefano Garau e realizzato nel vecchio mulino a vapore della famiglia Merello, tra la metà del Novecento fino alla fine degli anni Settanta, con parziali riaperture fino alla definitiva chiusura dopo un incendio. Negli Anni Duemila con l’inaugurazione del Teatro Massimo inizia una nuova era: sul nuovo palcoscenico si alternano gli spettacoli della Stagione di Prosa del Circuito e della Stagione di Danza, e poi concerti, festivals, performances e incontri.
Una platea di 728 posti, il MiniMax ora Spazio M2 con 202 posti, a cui si sono aggiunti negli ultimi anni altri spazi – dalla sala M3 con 69 posti alla MGallery – quasi a ridisegnare le geometrie interne in funzione degli eventi, secondo una sensibilità contemporanea.
Il direttore generale del TRIC Sardegna Teatro, Massimo Mancini, spiega la scelta di non partecipare al nuovo bando – quasi un atto dovuto da parte dell’amministrazione comunale, proprietaria del teatro, dopo la scadenza dei termini della precedente gestione, attualmente prorogata fino al 31 dicembre prossimo. Le motivazioni sono sia “tecniche”, che “politiche”: la ragione fondamentale sta nella stessa destinazione d’uso, che privilegia le “manifestazioni di spettacolo” – teatro, danza musica – accanto agli eventi culturali e alle attività di formazione, previsti ma in forma subordinata, – con la possibilità di accogliere saltuariamente anche proiezioni cinematografiche; in altre parole «l’affittuario potrà realizzare con continuità attività di trattenimento e di spettacolo destinate a ogni tipo di pubblico, anche aperte all’incontro con diverse discipline e nuovi linguaggi artistici e con artisti di provenienza nazionale e internazionale».
Il vulnus, per Massimo Mancini, sta proprio nella totale assenza di una visione, in quel ricondurre il teatro a mero contenitore di eventi senza nessuna considerazione sul suo ruolo sociale nella vita della comunità – a parte alcune valutazioni di merito sulle inesattezze e imprecisioni, sulla carenza di dati su costi di gestione e manutenzione e perfino sulla mancanza a tutt’oggi di una certificazione di agibilità definitiva. «Il Teatro Massimo viene messo a bando, con offerte al rialzo, come se si trattasse di un luogo qualunque» sottolinea il presidente Basilio Scalas, che ha aperto la conferenza con un breve bilancio di dodici anni di attività, nel corso dei quali sono stati rappresentati centinaia, forse più di mille spettacoli, eppure «non siamo stati neppure consultati in fase di preparazione del bando, né sono state prese in considerazione le richieste di chiarimenti».
Il TRIC Sardegna Teatro ha comunque «provato a elaborare un piano economico finanziario per verificare l’eventuale possibilità della partecipazione alla gara, immaginando delle stime sui dati mancanti» – si legge nel comunicato – ma la carenza di informazioni dettagliate «ha aperto una gamma di possibilità economiche troppo ampie e con dei casi limite pericolosamente rischiosi per la gestione di un’azienda culturale come il Teatro di Sardegna e per il suo ruolo sul territorio, come validato dal Ministero della Cultura. Inoltre, il bando presenta di fatto – oltre agli aspetti tecnici evidenziati – chiare indicazioni di politica culturale, laddove la cultura è intesa come mainstream che genera utili e che viene valutata in virtù di meri criteri quantitativi. Un bando che pesa l’azione culturale in termini solo di profitto tradisce il ruolo della politica nei territori».
Le criticità più evidenti riguardano proprio la valutazione dell’uso del bene, il che peraltro non inficia la validità dei progetti degli eventuali futuri gestori, nonostante i parametri professionali richiesti siano oggettivamente esigui: «almeno due anni di esperienza, negli ultimi cinque anni, nell’organizzazione e realizzazione di stagioni teatrali, con una programmazione destinata ad almeno 500 spettatori» oltre all’iscrizione alla Camera di Commercio.
Sottolinea Mancini – sulla falsariga del comunicato stampa: «non più un bando con un progetto elaborato, selezionato con la proposta economicamente più vantaggiosa, bensì un bando a massimo rialzo, quasi fosse un appalto per asfaltare una strada. Viene chiarito meglio dall’art.1 che indica nella principale finalità quella del “trattenimento” ossia la “riunione di più persone a scopo di piacevole passatempo” [v. Treccani] e dall’art.14: “è fatto divieto di sublocazione della struttura. È fatta salva la possibilità di concedere, saltuariamente e non in via prevalente, l’utilizzo delle singole aree di spettacolo dietro pagamento di un corrispettivo, a chi ne faccia richiesta per la realizzazione di pubblici spettacoli”. Viene totalmente formalmente eliminata la natura di teatro come produttore di spettacoli e contenuti artistici, nonché di teatro aperto, crocevia della città che è stata al centro del precedente bando.
Abbiamo provato a applicare questo bando alla gestione passata: non avremmo mai potuto produrre il Macbettu, L’Avvoltoio (Premio Enriquez), Sonnai con i senza dimora di Cagliari, l’emergente Valentino Mannias, l’ultimo lavoro di Lucia Calamaro che ha appena debuttato a Spoleto, e molti altri spettacoli che vedono impegnati più di 200 artisti all’anno. Non ultimo, in questo momento nella sala grande, è in prova il lavoro di Matteo Sedda, coreografo cagliaritano che lavora con Jan Fabre. Sono nati in questa sede progetti di cooperazione internazionale e locali, una rete dei festival del territorio, collaborazioni al solo scopo di condividere prospettive, possibilità, sogni.
Ci siamo dunque trovati di fronte a un bivio: da un lato la possibilità di candidarci a gestire una quantità di spettacoli di “trattenimento”, rinunciando così a produrre i prossimi Macbettu, L’Avvoltoio, Sonnai… dall’altra la scelta di reinventarci ancora. Abbiamo scelto di rischiare di essere nomadi, ma di non rinunciare a produrre quel Teatro d’Arte capace di rappresentare la Sardegna in tutto il mondo».
Insomma il TRIC Sardegna Teatro – unico Teatro di Rilevante Interesse Culturale dell’Isola riconosciuto dal MiC/ Ministero della Cultura, con ben tre progetti (su ventuno) sostenuti tra le azioni trasversali/tournée estero e che si avvia a diventare Teatro Nazionale – a parte l’amarezza di non vedere considerata una storia pluridecennale, culminata nei dodici anni di gestione del Teatro Massimo, come ricorda, con un po’ di commozione Basilio Scalas – potrebbe dover cambiare casa entro la fine di questo travagliato 2021. L’ipotetica è d’obbligo – non solo per i tempi incerti del Covid – anche visto l’appello, lanciato da Massimo Mancini all’amministrazione, ad “annullare” e quindi riscrivere il bando, tenendo conto la peculiarità del teatro come luogo d’arte e cultura e il suo senso “identitario” inscritto nella storia della comunità. Un invito a ripensare – insieme agli operatori – la politica culturale del capoluogo dell’Isola, e la “vocazione” di un teatro come luogo di creazione e sperimentazione, fulcro della vita culturale e sociale.
Ultima curiosità: «Perché abbiamo citato La Schivata nella promozione della conferenza stampa? La Schivata, film di Abdellatif Kechiche del 2003, rappresenta i desideri, i sogni, i giochi – anche realizzati attraverso il teatro – di due ragazzini di una banlieue parigina repressi da una violenza istituzionale, coercitiva, inaspettata e verticale».
Un’allusione al ruolo rigeneratore dell’arte e della bellezza, alla sua forza rivoluzionaria, alla sia capacità di cambiare la visione del mondo? Ai posteri (e a lettori e spettatori) l’ardua sentenza.