RUMOR(S)CENA – PRATO – “Se ora gridassi ‘vergogna’ ci hanno licenziato con un’e-mail. Hanno fatto bene il loro lavoro, hanno calcolato tutto, lo stupore, la rabbia, la vergogna. Il capitale lo fa. Ci hanno fatto l’agguato: tutti licenziati, chiusura totale dello stabilimento con effetto immediato”. Inizia così, con le parole di Dario Salvetti, Rsu della Gkn, lo spettacolo “Il capitale – Un libro che ancora non abbiamo letto”, un progetto di Kepler-452, scritto e diretto da Enrico Baraldi e Nicola Borghesi per la produzione Emilia Romagna Teatro ERT/Teatro nazionale.
La drammaturgia alterna citazioni dell’opera maggiore di Karl Marx del 1867, considerata come uno dei capisaldi della filosofia marxista, e i racconti dei lavoratori della Gkn, stabilimento industriale produttore di semiassi situato a Campi Bisenzio, prima di proprietà della Fiat e poi del fondo Melrose. La vicenda inizia il 9 luglio 2021, quando gli operai metalmeccanici della Gkn, collocati tutti in ferie forzate, ricevono un’e-mail, che viene letta a turno sul palcoscenico, con la quale viene comunicato l’avvio di una procedura di licenziamento collettivo. “Dopo mezz’ora siamo in cento di fronte al cancello – raccontano – il cancello inizia a ondulare e siamo dentro”.
Nonostante la barricata delle forze dell’ordine, il collettivo di fabbrica istituisce un’assemblea permanente il giorno stesso e tuttora in corso, ed occupa la fabbrica in modo che né i macchinari né la merce escano da dentro l’officina. Gli operai fanno fronte comune, appendono fuori lo striscione “la Gkn non si tocca”, poco dopo sostituito da “Insorgiamo”, prima persona plurale espressione della forza del collettivo e del fatto che questa fabbrica è come una casa, una famiglia da proteggere. Da quel momento ha inizio anche il bombardamento mediatico di tv e giornalisti asserragliati di fronte al cancello che chiedono agli operai come faranno a pagare mutui ed affitti e ripetono, inesorabilmente, la stessa domanda “come state?”. Non c’è risposta a questa domanda nel Il Capitale, un libro di millecentoventisei pagine che fa paura. “Non l’abbiamo letto, non l’abbiamo capito e non riusciamo a farlo”.
La scenografia è spoglia e grigia e ricalca l’atmosfera della fabbrica abbandonata e desolata, la “bambina che dorme” come la chiamano gli operai, di cui si avverte nel silenzio il dolce ronzio dei macchinari spenti. Soffitti alti e luci al led, corridoi immensi e robot minacciosi, semiassi, gabbie e nuclei. Il progetto di occupazione della fabbrica si unisce a quello del regista teatrale Nicola Borghesi, che dopo avere partecipato ad una manifestazione pubblica, contatta il collettivo e chiede di essere ospitato per un po’ di tempo perché vorrebbe scrivere uno spettacolo teatrale e, per farlo, ha bisogno di conoscere da vicino la situazione.
Così Nicola Borghesi fa accesso alla Gkn. Gli vengono incontro “facce da operai” che gli chiedono se voglia mangiare il cinghiale: tutti lo guardano con sospetto, nonostante l’accoglienza iniziale. Borghesi viene subito ribattezzato “quello della Digos”, dorme per più di un mese su una branda, si alza la mattina e beve un caffè su una panchina fuori dall’officina. “C’è uno che si sveglia la mattina, prende un caffè e si siede su una panchina e guarda. Ma che cazzo c’ha da guardare?”. Al resoconto personale ed appassionato di Borghesi, che restituisce uno spaccato del capannone occupato, si alternano le voci di tre operai, presenti sul palcoscenico, che a turno raccontano la propria storia.
Facciamo così la conoscenza di Francesco Iorio, di Felice Ieraci e di Tiziana De Biasio. Tre operai appartenenti al collettivo, pezzi dell’ingranaggio ed addetti a diverse mansioni. Francesco, il manutentore, fiorentino, entra in fabbrica all’età di diciassette anni, prima al montaggio e poi assegnato alla manutenzione perché sa usare bene le mani: qui ha un capo reparto burbero dal cuore buono, che muore inavvertitamente un giorno nel suo letto. Questo fatto fa scattare una molla nella mente di Francesco: “e se capita a me…cosa ho fatto nella vita? pezzi, pezzi, pezzi…”. La molla si inceppa e Francesco chiede aiuto ad uno psicologo per uscire dal tunnel, finché l’ansia e gli attacchi di panico si diradano dopo il 9 luglio 2021. “Dottore mi fanno cucinare il sugo di pecora per trecento persone, è diventata una sorta di divinazione…io credevo di venire da lei per curare l’ansia, invece avevo solo bisogno di occupare una fabbrica”.
Il secondo a parlare è Felice Ieraci, addetto al montaggio dei pezzi, italo-americano originario del New Jersey, orfano dei genitori morti in un incidente stradale e poi adottato da una famiglia di Napoli. La sua mansione è fare la stessa azione per venti anni, otto ore al giorno, e per lui è un modo per essere felice. I suoi compagni di fabbrica sono la sua famiglia. “Questo presidio lo faccio per la famiglia. Mi manca lavorare, fare questi pezzi. Se non avevo voglia di usare la mente bastava mettersi le cuffie, ascoltare la musica di Battiato e scomparire”.
Ultima è Tiziana De Biasio, inizialmente assunta per gestire il personale delle ditte di appalto specializzato in servizi di pulizia, movimentazione merci e controllo qualità, tutto sindacalizzato. “Avevano pensato che una donna fosse adatta per quel ruolo, dovevo stare dietro alle minime infrazioni e contestare. Erano maschi e maschilisti e per loro ero sempre ‘quella’”. Ad un certo punto decide di smettere di segnalare: per i maschi maschilisti diventa ‘Tiziana’ e lei inizia a vedere gli uomini oltre gli operai. Col cambio dell’appalto viene demansionata ed assegnata ai servizi di pulizia. Si chiede “cosa ho sbagliato? forse non ho segnalato abbastanza? forse questo non era un lavoro da donna”. Il processo di demansionamento ha luogo anche nella sua mente: piange e si vergogna fino a ricordarsi delle parole del padre che le diceva di lavorare con onestà e dignità.
Poi la svolta. Alcuni mesi dopo la mattina del 9 luglio 2021, il tribunale di Firenze dichiara illegittimi i licenziamenti e chiede la reintegra di tutti i lavoratori, ma la produzione non riparte. “Eppure anche in quei giorni di festa nessuno voleva parlare – dicono – avevano lavorato dieci, venti in quella fabbrica e non volevano che chiudesse”. A dicembre 2021 un nuovo fatto: la proprietà viene venduta a Francesco Borgomeo, gli operai vengono messi in cassa integrazione con la riapertura della procedura di licenziamento collettivo. Da allora, il tempo che prima andava velocissimo, è improvvisamente rallentato.
“Che cos’è poi davvero il tempo? quanti primi giorni di scuola dei figli non visti, quanti film e spettacoli di teatro non visti, quanti ‘ti amo’ non detti…quanto tempo ancora ci rimane? perché lavorare per una fabbrica che non ha sentimenti?”. Arriva così il momento delle confessioni finali: Francesco urla “non voglio più lavorare”, Felice fa un sogno di un uomo che lascia la fabbrica, forse una sua proiezione, ma non ha il coraggio di andarsene. Allo stesso modo, anche Tiziana prova a cercare un altro lavoro, per poi rendersi conto che la sua presenza è necessaria al collettivo. Da ultimo Nicola, che dopo essere tornato a Bologna odia tutti perché non erano stati lì: “odio me stesso, sono entrato nella fabbrica che non produceva più nulla per fare uno spettacolo di teatro. Odio loro, i metalmeccanici di Firenze che non capisco, che mi hanno accolto ma si vede benissimo che pensano che sono un idiota perché non ho mai lavorato un giorno. Odio anche i miei genitori, quella parte di loro bambina che continua a parlarci e a dirci di cercare qualcosa che abbiamo perso e che non ci dà pace”.
Alla fine anche il vento, che sempre tirava nel piazzale della fabbrica, si è fermato. Tutto fermo. Tutto viene avvolto da una grande nebbia, fisica sul palcoscenico e mentale. In questa atmosfera torna Dario Salvetti a ricordare i ventisette mesi di assemblea permanente, la capacità di non arrendersi mai nonostante la sconfitta a portata di mano. “Non leggeremo mai i libri del Capitale – chiosa sul finale – quando il capitale è scappato da questa fabbrica e le gerarchie sono cadute, siamo stati più umani e abbiamo vissuto. Se avvicini l’orecchio a questo spiraglio che tieni in vita, senti il rumore del tempo che accelera e la necessità di prepararsi per tempo al tempo che ci viene incontro. Scegliamoci buoni compagni e compagne e prepariamoci a non morire soli”.
Visto al Teatro Metastasio di Prato il 22 ottobre 2023
Il capitale – Un libro che ancora non abbiamo letto, progetto di Kepler – 452 drammaturgia e regia Enrico Baraldi e Nicola Borghesi. Con Nicola Borghesi e Tiziana De Biasio, Felice Ieraci, Francesco Iorio – collettivo di fabbrica lavoratori GKN con la partecipazione di Dario Salvetti. Produzione Emilia Romagna Teattro ERT/Teatro nazionale