RUMOR(S)CENA – MILANO – Una reazione stizzita, colta sulle labbra di una spettatrice all’uscita di una replica di Zio Vanja, evidentemente insoddisfatta dell’allestimento firmato da Roberto Valerio e dall’ Associazione Teatrale Pistoiese, offre l’occasione di riproporre un’antica diatriba, mai del tutto risolta. È noto che, dopo il fiasco del Gabbiano, fu l’incontro di Čechov col Teatro dell’arte e con Stanislavskij a decretarne il successo, anche internazionale. Le successive commedie, fino al Giardino dei ciliegi (il cui titolo potrebbe essere più correttamente tradotto nell’orribile forma Il giardino dei viscioli – in russo, višnja), le avrebbe scritte su misura per Olga Knipper, sua futura moglie, attrice di talento della compagnia di Stanislavskij.
Appunto “commedie”: così preferisce chiamarle Anton Pavlovič, non “drammi”; come pure le precedenti, meno frequentate (Lešij, Ivanov), malgrado in alcune vada pure a segno qualche colpo di pistola. Zio Vanja, si qualifica addirittura come “scene di vita in campagna”. In effetti, lo sguardo che il dottor Čechov posa sull’umanità, e col quale la esplora, sia nei racconti, sia nel teatro, è sempre attento, penetrante, soffuso di un’amara eppur benevola ironia; ma non è mai sopra le righe; né incline a sentimentalismi. Stanislavskij ha una diversa visione del mondo e della vita: lo si rileva anche da uno dei fondamenti del suo metodo, il concetto di pereživanie, parola difficilmente traducibile, ma associata al verbo pereživat’, che significa “preoccuparsi”, “provare pena”.
Non stupisce quindi che, come testimoniano i copioni originali, Stanislavskij continuasse a inserirvi puntini di sospensione, e Čechov a cancellarli, mostrando anzi stupore per le lacrime che i suoi testi teatrali suscitavano nel pubblico. Stanislavskij esportò anche negli Stati Uniti il suo metodo e il teatro di Čechov, mettendolo in scena, ovviamente, alla luce della sua propria poetica. Sopravvissuto per oltre trent’anni ad Anton Pavlovič, gli diede una notorietà che, diversamente, forse il dottor Čechov non avrebbe avuto. Un destino comune a un altro grande russo, anch’egli morto prematuramente: Musorgskij, il cui Boris Godunov ebbe fama internazionale ma, fino a pochi decenni fa (e spesso ancora adesso), solo nella discutibile revisione di Rimskij-Korsakov. Ma questa, ancorché simile, è un’altra storia. Se, a livello critico, la diatriba fra Čechov e Stanislavskij è da tempo nota, presso il grande pubblico permane tuttora un’immagine del teatro di Anton Pavlovič intrisa di languori e svenevolezze: elementi difficilmente reperibili nella lettura, sicuramente personale, ma non così peregrina, di Roberto Valerio.
L’asciuttezza della scenografia, l’eliminazione di qualche personaggio apparentemente secondario (ma quanto è importante, nel teatro di Čechov, la ricorrente figura della njanja, la vecchia bambinaia!), alcune concessioni a un erotismo esplicito, l’allungamento delle età dei protagonisti (ma qual era, alla fine del XIX secolo, la vita media in Russia, e a che età una donna poteva dirsi non più giovane?) sono scelte su cui si può discutere, tese a riportare legittimamente la vicenda ai nostri giorni, ma hanno una loro coerenza, e non tradiscono l’impianto originale čechoviano. Come spesso si dice di Shakespeare, forse anche Čechov sopporta qualsiasi operazione, anche eversiva. E come non ricordare con tenerezza, a questo proposito, l’ultimo, splendido film di Louis Malle, intitolato Vanya sulla 42esima strada?
E se il protagonista eponimo – l’ottimo Giuseppe Cederna – nell’allestimento pistoiese appare davvero come “il re dei buffoni”, tale è l’espressione con cui lo qualifica Čechov, attraverso le parole del dottor Astrov. Alla personale riscrittura drammaturgica di Valerio tutta la compagnia si adegua con intelligenza e coerenza; una menzione speciale per Mimosa Campironi (non è facile, per una ragazza attraente, essere una convincente bruttina). Meno credibile la Elena di Vanessa Gravina, che fatica a liberarsi dal suo ruolo di bellezza televisiva, rimanendo un corpo estraneo nel particolare mondo di Anton Pavlovič.
Ma, forse, l’anonima spettatrice stizzita di cui sopra l’avrà apprezzata.
Visto alla Sala Grande del Teatro Franco Parenti di Milano il 24marzo 2022