Costume e Società, Recensioni — 06/11/2024 at 10:33

Rocco Siffredi racconta se stesso sul palcoscenico teatrale.

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RUMOR(S)CENA – MILANO – La Prima Nazionale al Teatro Arcimboldi di Milano (in data unica, il 29 ottobre 2024) e poi un tour, che lo porterà in giro per altre otto piazze italiane: eccola, la prima volta a teatro per Rocco Siffredi. Giocando a ribaltare schemi e cliché, il porno attore intitola il suo spettacolo “Siffredi racconta Rocco”, quasi a suggerire che, per una volta, sarà il personaggio a mettere a nudo l’uomo

Che sarebbe stata una performance fra il serio e il faceto, lo s’intuisce già dalla location scelta e del circuito di distribuzione. Il debutto è stato all’Arcimboldi, che è un po’ il salotto buono di quello Zelig nato al Circolo Popolare di Unità Familiare di Viale Monza e poi esportato, negli anni ’90, nell’omonima trasmissione televisiva Mediaset – prima di approdare, nella versione patinata di Zelig Circus, proprio sul palcoscenico del nuovissimo teatro di Viale dell’Innovazione. Anche le successive tappe sono in linea: dall’Alfieri di Tornio (4 novembre) al Brancaccio di Roma (18 novembre), fino al gran finale, il 21 marzo 2025, al Teatro Ariston di San Remo.

Cionondimeno, incuriosisce come e cosa il signor Tano abbia da svelare su una delle figure a suo modo più iconiche di quegli stessi anni ’90, che vedevano il consolidarsi del modello di show business della tv commerciale e d’intrattenimento.

Il come ovvero la chiave di lettura formale

“Siffredi racconta Rocco” si preannuncia come un one man show – format quanto mai adatto a intrattenere divertendo, spesso in modo graffiante e intelligente. Tornato in auge anche nei teatri più tradizionali, questa formula è cifra di quella tv privata, che gli ha consacrato trasmissioni e idoli. In scena il solo Siffredi, pur supportato da un impianto scenografico di sicuro effetto.

Al centro, lo schermo amico, su cui render tangibili volti e nomi della sua doppia vita, ma anche le parole-chiave e le tesi, che lo aiutano a portare avanti la narrazione. Ai lati, un letto cartonato, alla sua destra, e, alla sinistra, un’istallazione, la cui sola funzione sembrerebbe esser quella di mostrare, in controluce, una sua sagoma a grandezza naturale. In parte funzionale all’interazione, in altra parte, però, questo appariscente allestimento rischia di risultare ornamentale o addirittura di riempimento di quei pur 32 metri di palco, certo non facili da abitare per chi non sia più che smaliziato nel padroneggiarne l’estensione.

Dall’entrée, da fondo sala – concedendosi, generoso, all’abbraccio dei suoi fans – ai già citati contributi video, dai giochi a premi con gli spettatori – ché il quarto di celebrità, profetizzava Andy Warhol, tanto piace, specie a noi, ormai quasi tutti social patici – al remake delle trasmissioni che ci tengono compagnia all’ora di cena, dal microfono-gadget dalla forma giocosamente inequivocabile alla drammaturgia della forma che ammicca a tanto déjà vu sugli schermi di casa. Ed è proprio questa, l’intelligenza del progetto: offrire al grande pubblico quella stessa comfort zone, in cui si adagia, a fine giornata, per un po’ di meritato relax. Così, non stupisce che, a dirigere e produrre lo spettacolo, sia quel Paolo Ruffini, lui stesso cresciuto a suon di gavetta, fra animazione, cinema e tv. Questo sodalizio restituisce l’immagine di un Paese possibilista, per chi abbia idee e voglia di fare.

Il cosa ovvero il grande quiz della busta

ll plot dice di un enigma, la cui risoluzione è già contenuta nella vistosa busta scarlatta, che Siffredi stringe a sé entrando. Guadagnato il palco, ne scioglie il senso: lì è contenuta la risposta sul come Rocco sia diventato Siffredi. E l’intero spettacolo, ideato come un format televisivo, in fondo altro non fa che costruirne la in parte prevedibile risposta. Lo fa attraverso quella modalità da  tv verità, giocata fra serio e il faceto, gioie, dolori, pruderie, accadimenti, rimorsi, sconfitte, rivincite e quel pizzico di (melo)dramma, che non guasta mai.

Nello spettacolo, tutto ciò si traduce in un racconto autobiografico che, pur non facendo sconti ad affondi anche su accadimenti dolorosi (la morte del fratello di 12 anni, quanto lui ne aveva solo 6) o su figure della sua vita privata (il ricordo del padre, o, straziante, della malattia della madre, mai più realmente ripresasi dopo quel lutto, o dell’inseparabile cugino, angelo custode, convertitosi ad una nuova professione, pur di stargli accanto), cerca di intrattenere con aneddoti dal back stage dei suoi film, battute ironiche e inevitabili, ma sempre garbati, doppi sensi e giochi di parole.

Parole-chiave

La fa da padrona l’ironia – e l’auto ironia -, con cui non smette di schernire quegli anni, pur ricchi di vita e di esperienze dai racconti inevitabilmente divertenti e roccamboleschi, ma che ripetutamente e con apparente sbrigatività liquida con quel: “Non c’era molta serietà…”. Eppure sono proprio quelli a offrirgli il pretesto per far affiorare quanto invece di grande, si annidasse nel suo cuore di bambino, costretto a crescere troppo in fretta.

Libertà, passione, sentimento, vocazione: eccole, le parole-chiave a costellare il suo racconto, sì, ma, prima ancora, la sua vita, dice. Così, la biografia a tratti si fa confessione, portandolo a dismettere i panni del porno divo Siffredi, per lasciar intravvedere quel Rocco, che non si sottrae alla commozione. Del resto: “Di cos’altro potrebbe vergognarsi, chi si sia mostrato nelle più svariate situazioni, di coppia o di gruppo, in ben oltre 2000 pellicole pornografiche?”,  ironizza. E non ha remora alcuna nel tratteggiarsi come votato a questa professione, pur di non facile accettazione sociale, ma che gli ha offerto l’occasione di amare – eccolo, il prezioso responso nella busta -e dar piacere emozionale (e non solo fisico)e di essere libero, come sognava quel sé bambino, che voleva soltanto volare.

Ecco il perché del suo rivendicarla come una scelta vocazionale; ecco il perché del suo aver preferito, a un certo punto, mettersi dall’altra parte della macchina da presa, quanto il trasformarsi del suo corpo non gli concedeva più quella stessa libertà emotiva ed emozionale. Ed ecco, anche, la ragione del suo disincanto di fronte ai giovani porno attori (che etichetta come porno fake), sempre più spesso incapaci di vivere la situazione e bisognosi, invece, di ricorrere a supporti differenti.

La favola bella

Salvo poche (pochissime) eccezioni, nel suo narrare appare tutto leggero e scanzonato, anche quando indugia nei momenti più critici o ripercorre gli incidenti occorsigli sul lavoro. Appare tutto pulito, garbato, edulcorato, trasfigurato, quasi, da quella drammaturgia, che, se anche cede a momenti drammatici, sembra poi ridimensionarli, riabbracciandoli, in un disegno più amplio. È il suo modo, ammette, di escludere le pagine più nere, legate, ad esempio, alla dipendenza, comprensibilmente sgradite alla splendida e amatissima moglie, con lui sul palco per il gran finale.

Uscendo di sala, ronzano le rime d’annunziane (autore per tanti versi a lui affine) de “La pioggia nel pineto”. “La favola bella”, eppur: “che ieri t’illuse, che oggi m’illude”, alludono.

Così, resta  il dubbio sul senso di uno spettacolo dichiaratamente parziale  – e, fino a qui, nulla di strano: inevitabilmente ogni narrazione lo è – e intenzionalmente leggero.  Senza nulla togliere alla generosità e al coraggio – e all’intelligenza – di questo progetto, chi lo sa se la tanto agognata consacrazione di attore a tutto tondo, possa davvero arrivargli da qui. Ma era solo il debutto…

Visto al Teatro Arcimboldi di Milano il 29 ottobre 2024

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