MILANO – Al Piccolo Teatro Studio solo nei week end dal 3 all’11 febbraio – matinée riservate alle scuole -, “Canto la storia dell’astuto Ulisse” racconta dell’eroe che, bello di fama e di sventura, baciò la sua petrosa Itaca. Forte di un’esperienza oramai più che quarantennale – fondata nel 1971 come compagnia di Teatro d’animazione, dal 1978 si occupa anche di Teatro d’ombre -, Teatro Gioco Vita sceglie di esprimersi attraverso un linguaggio vivace e intelligente, capace di mixare ironia e pathos, colloquialità ed epos. Accanto alle parole giocate di Flavio Albanese, autore, narratore e imbonitore e poi, all’occorrenza, lui stesso Ulisse, l’eco delle pagine di Dante e di Omero, quasi a voler educare le orecchie più giovani a queste musicalità intramontabili. Compositi, del resto, sono anche i linguaggi: in scena non solo la parola ammaliatrice dell’aedo contemporaneo, ma, a dar sostanza ai suoi sogni evocati, anche un armamentario scenico come la macchina del vento, del tuono e della tempesta, ma, soprattutto, le pregevoli scene e sagome di Lele Luzzati, impreziosite dai movimenti d’ombre di Federica Ferrari. Così che la compagnia consustanzia Teatro di narrazione, d’ombre e di figura.
Nell’introduzione dalla valenza più didattico-pedagogica, infatti, protagonista è il mattatore: è lui che, in una simil stand up commedy da one man show, cattura il giovane pubblico con una gigioneria, che però non manca di strizzar occhiate d’intesa anche agli spettatori adulti (come quando, definito Zeus come una sorta di Presidente del Consiglio dell’Olimpo, si ritaglia lo spazio della satira, alludendo alle sue molte mogli e amanti). È qui che racconta ai bambini – e coi bambini, coinvolti attivamente in questa prima parte a tratti maieutica – una libera e fantasiosa, ma, per altro verso anche filologicamente approfondita e argomentata favola. Li ricostruisce insieme ai piccoli, la cosmologia e la cosmogonia del pantheon ellenico, gli antefatti e le vicende di quella Guerra di Troia, che originarono i Nòstoi. Cos’altro fu, in effetti, l’Odissea, se non il decennale peregrinar per mare di Ulisse nel viaggio di ritorno (nostòs, appunto)? Questa, la punizione inflitta dagli dei agli eroi greci a causa delle atrocità commesse nella città dell’Asia Minore.
Comincia così la seconda parte dello spettacolo, in cui il ruolo del cantore si fa più defilato e di servizio a lasciar spazio alle immagini. È il trionfo del Teatro d’ombra con le sue atmosfere oniriche dai colori, ritmi e musicalità accesi – come passionale, del resto, è il temperamento dei popoli del Mediterraneo – e con quelle sue sagome, che sembrano rubate all’iconografia vascolare dell’Antica Grecia. All’interno di questo sogno bidimensionale si muove lui, un Flavio Albanese un po’ omeride – così, lo aveva raccontato prima, venivano chiamati i rapsodi di quella saga -, un po’ Ulisse e un po’ spettatore, che, con gli stessi occhi incantati del pubblico non solo bambino, a tratti se ne sta, spalle alla platea e naso all’in su, a guardare, ammaliato, lo schermo. Qui vengono rievocati gli episodi salienti dell’Odissea: Polifemo, l’incontro con Tiresia, le sirene, Scilla e Cariddi, Calipso e, finalmente, il ritorno in patria. È una sciarada d’arguzia come nell’episodio del ciclope, di meraviglia – incantevoli le immagini degli uomini trasformati in animali (argutamente, si scegli di mutarli in cani, anche, e non solo in maiali: non sono forse l’ira e l’abbruttimento dei sensi mali egualmente esecrabili?) -, di edulcorato terrore come quello evocato da Polifemo mangiatore d’uomini o dai due mostri marini, ma poi nemmeno qui mancano momenti pedagogici di riflessione. Se Ulisse si stupisce di trovare nell’Ade la madre che aveva lasciato viva, è lei che lo fa riflettere su quanto sia naturale che i figli sopravvivano ai genitori, ma quanto poco invece lo sia il contrario. Ecco cosa fa la guerra: genera i più spaventosi orrori, quali l’uccisione del tenero Polite, figlioletto di Priamo, re di Troia, trucidato sotto gli occhi impotenti dell’attempato padre dalla feroce tracotanza di Pirro, figlio di Achille. E non occorrono ulteriori commenti.
Quindi un lavoro ben congeniato, questo “Canto dell’astuto Ulisse”. Giocato da professionisti più che rodati nei rispettivi ruoli, è pensato col duplice intento di portare in scena un classico della cultura e della formazione occidentale, ma anche come momento di riflessione. Così l’astuzia diventa cazzìmma, nella traslazione partenopea. Si spiega che cazzìmma è più che intelligenza; è furbizia, ma con quella punta di cattiveria autoprotettiva, che fece fingere a Ulisse la pazzia, pur di non partire per una guerra, che tanto sarebbe costata a lui, perno risolutore. Così immortalità si traduce con gloria e non con eterna durata, ché fu proprio quell’ininterrotto ma anonimo vivere a spingere l’astuto ad abbandonare la dorata prigionia nell’isola Ogigia per tornare a casa. “Una vita senza ricerca non è degna per l’uomo di essere vissuta”, scrisse Platone nell’ “Apologia di Socrate”.
Visto al Piccolo Teatro Melato il 3 febbraio 2018