RUMOR(S)CENA – GENOVA – Rivedendo e rivivendo Spettri di Henrik Ibsen, in questa regia del lituano Rimas Tuminas, non possiamo fare a meno di considerare, restando nella linea degli essenziali studi di Péter Szondy, come la crisi del dramma borghese coincida con il suo apice, a specchiare una Società che proprio nel momento del suo trionfo mostrava le sue profonde crepe, e insieme ad esse le sue spesso tragiche debolezze. Dunque è proprio l’apice del dramma borghese che rende palese la sua crisi, esplicitata proprio dallo sforzo estetico e profondamente creativo di utilizzare quelle forme, ormai irrigidite e insufficienti, per continuare a portare in scena il nuovo, i fermenti di un rinnovamento che già si potevano leggere in trasparenza attraverso la loro trama lisa e, per così dire, recuperata con estetici rammendi in ogni sua parte.
Il drammaturgo norvegese qui, ma non solo con Spettri, ci invita e guida a guardare dall’altra parte di quella trama in continua tensione, a percepire ciò che si nascondeva e si nasconde dietro la disperata difesa di una Società che voleva (vuole) fare dell’inconsapevolezza la trave portante della sua sopravvivenza. Ma, proprio come quella trave portante, il tetto che custodiva quel mondo, borghese e di conseguenza rigidamente patriarcale, sembrava avviarsi ormai ad inesorabile rovina, e gli spettri sono come gli spifferi che, al pari di un vento gelido, penetrano da ogni parte quelle stanze tenute in ombra, mostrandocene la decadenza.
Ciò che percepiamo è la tendenza di questa collusione di classe tra borghesia e capitalismo a rendere tutto merce, tutto vendibile sempre se ben confenzionato; pietra di paragone, anzi pietra dello scandalo, dell’inciampo, è anche qui la donna, la parte femminile del duale, della coppia su cui si appoggia il muro maestro della casa/società, un femminile che si propone nella sua autonomia e così, forse ancora senza piena consapevolezza, si ribella. Ha scritto Frode Helland: <<l’analisi ibseniana del problema di genere sembra concludere che in quelle società dove il rapporto tra i sessi è asimmetrico, come lo era nell’epoca di Ibsen, ci sarà sempre un reale pericolo che un rapporto di coppia di fatto sia, o possa diventare, un commercio>>, ed è questo il filo rosso che lega Helene Halving di Spettri, con Nora Helmer di Casa di bambole e Ellida Wangel della Signora del Mare.
Così la sonda ha toccato il fondo melmoso di un mare in cui la ‘vecchia’ famiglia patriarcale naufraga insieme alla nave della Società. La regia coglie a mio parere questo nucleo narrativo e significativo, in questo ben assecondata dalla moderna traduzione e dall’adattamento di Fausto Paravidino, spogliando la scena di ogni inutile ornamento, di ogni orpello sviante e così mettendo faccia a faccia personaggi e spettri. Entrambi condividono infatti, esteticamente e metafisicamente, il medesimo ‘luogo’ della mente e dello spirito. In proposito è, dunque, scelta scenica drammaturgicamente ben congegnata quella di traslare il rapporto tra Osvald Alving e la sorellastra Regine in forma di essenziale ma suggestiva coreografia.
Dentro a quel luogo condiviso, in una scena spoglia ed essenziale, abitata soprattutto dal suono del vuoto che si trasfigura nel pieno di una musica di grande effetto, tutto ruota intorno ad Helene Alving la vedova non più custode, una Andrea Jonasson perno di scene e di suggestive controscene, che costringe ciascuno dei personaggi a fare i conti con ciò che lei è e rappresenta, con il passato e con il presente, per risolvere infine, ciascuno, il proprio sé nella fuga o nella morte. Sorta di riflessi di una intima e oscura caverna dell’anima, essi sembrano quasi non avere esistenza propria al di là di ciò che sono in presenza e nella contingenza scenica, mentre contestualmente si sfaglia man mano quella figura patriarcale di sottofondo, quel defunto Capitano Alving, che tutto doveva salvare e che al contrario tutto ha distrutto, compreso il figlio coinvolto in una tragica e coattiva pulsione di morte.
È questo, tra padre e madre, tra padre e figlio, tra madre e figlio senza possibile mediazione, lo strappo definitivo che chiude, anzi riapre una narrazione di noi che ancora dopo 150 anni non si è arrestata. Non si può, per concludere, parlando di Ibsen non parlare di Eleonora Duse (grande maestra anch’essa delle controscene) e della capacità che ha avuto di rintracciare nelle opere di quello, anche al di là della esplicita consapevolezza del drammaturgo, questo nucleo di resistenza se non di irriducibilità del femminile, declinato innanzitutto in senso teatrale e drammaturgico, ma non privo per lei di riflessi e ricadute esistenziali.
Un nucleo di resistenza, un attrito che produce energia estetica, come scrisse suggestivamente, la stessa Eleonora Duse in una lettera indirizzata ad Ermete Zacconi da me rintracciata al “Museo Biblioteca dell’Attore” di Genova: <<Il motore produce tanta più forza quanta più resistenza ha da vincere>>. Uno spettacolo di qualità in ogni suo snodo, al teatro Ivo Chiesa dall’1 al 5 febbraio, ospite del Teatro Nazionale di Genova. Buoni, alla prima, i riconoscimenti del pubblico.
Spettri di Henrik Ibsen. Regia Rimas Tuminas. Versione italiana e adattamento Fausto Paravidino. Con Andrea Jonasson, Gianluca Merolli, Fabio Sartor, Giancarlo Previati, Eleonora Panizzo. Scene e costumi Adomas Jacovskis. Luci Fiammetta Baldiserri riprese da Oscar Frosio. Musica Faustas Latènas, Giedrius Puskunigis, Jean Sibelius, Georges Bizet. Produzione Teatro Stabile Veneto – Teatro Nazionale.
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