RUMOR(S)CENA – SOS CINEMA – Esegesi del film TAR di Todd Field (Venezia 79 Coppa Volpi Cate Blanchett) – L’illusione imperfetta dell’onnipotenza sotto forma della perfezione musicale, passa dalla bacchetta della più grande direttrice d’orchestra del mondo- Lydia Tar- e arriva alla sua psiche devastata , mascherata dal controllo e dall’ autocontrollo più assoluti. Nulla, in colei giunta prima donna alla direzione dei Berliner Philharmoniker, lascia trapelare strategie mentali patologiche destinate a colpire come un boomerang la magnificenza armonica prodotta dai suoi gesti e dai suoi pensieri. Di colei che domina il tempo, lo plasma, il tempo come elemento fondamentale dell’interpretazione secondo la lezione del suo mentore Leonard Bernstain. Lydia Tar è colei che avvia il tempo, il massimo dell’onnipotenza umana vicina a quella degli dei. Ma come gli dei, Tar cattura le anime degli umani, nel suo caso delle donne, in quanto lei lesbica le soggioga in giochi di potere e sottomissione, in favoritismi subdoli. Cate Blanchett gigantesca già in “Blue Jasmine” di Woody Allen omaggio’ l’immensa Gena Rowlands dei film di Cassavetes. Qui lo fa ancora agganciandosi ai match fisici de “La sera della prima”. Non solo. Anche alla Gena Rowlands woodyalleniana di quel capolavoro assoluto che è “Un’altra donna “,dove una donna apparentemente perfetta vede sgretolare la sua maschera. A Lydia Tar accade altrettanto, attraverso un crescendo rivelatore: della sua mostruosità interiore che ha condotto al suicidio un’allieva, dei suoi cedimenti sentimentali di fronte all’infatuazione per una violoncellista che la tira pazza e ne mette in discussione il suo menage con Sharon(la meravigliosa Nina Hoss musa di Christian Petzold) ,dell’ambigua relazione di sesso/potere con l’assistente(la Noemi Merlant di “Ritratto della giovane in fiamme) che silurata si vendicherà. Todd Field è un autore poco prolifico(solo tre film in vent’anni “In the bedroom”,”Little children” e questo “Tar”), ma di grandi patologie, di vortici psicologici ai confini della pazzia, di storie di ordinarie follia confinanti col delitto e la tragedia. Ha una grande solidità autoriale e una complessità che lo avvicinano da lontano e a tratti a grandi nomi come Huston, Polanski(qui “Le locataire” è evidentissimo),Rafelson, Antonioni. Stavolta anche al Bergman del sublime “L’immagine allo specchio”, per quel precipitare inarrestabile dalla nevrosi alla psicosi del suo personaggio (attenzione alle immagini finali) in un percorso lucido e poi improvvisamente delirante, regressivo, irreversibile. Lo stesso che viveva Liv Ullmann. Il film bellissimo e straordinario per estremo impatto emotivo, affronta anche il dilemma fra la perfezione dell’ opera d’arte e l’imperfezione umana che la crea. Con una razionalità e una crudeltà che non fanno sconti e non salvano dall’abisso.
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