GENOVA – C’è tutto l’aroma del legno – di quello respirato, vissuto e sublimato direttamente sulle assi del palcoscenico – in “Battlefield regia ed adattamento di Peter Brook e Marie-Hélène Estienne a partire dal poema epico indù “Mahābhārata” e dal testo teatrale ricavatovi da Jean-Claude Carrière.
Sono passati più di trent’anni da quel monumentale “Mahābhārata” – correva l’anno 1985 e il 7 luglio, al Festival di Avignone, venne portato in scena uno spettacolo-fiume della durata di ben nove ore, ma capace di ripercorrere e offrire al vasto pubblico una summa del sacro testo sanscrito –; nello scorso week and, dal 2 al 4 marzo 2018, “Battlefield” è tornato in Italia, al Teatro della Tosse di Genova.
Quel che colpisce, anzitutto, è lo spazio – pneumatico – del palcoscenico “vuoto”: un canneto minimalista sullo sfondo a suggerirci la latitudine (siamo in Asia, lo intuiamo subito), e poi solo un essenziale catafalco/seggio, ammorbidito da una coperta scarlatta, che sarà doloroso trono e luogo di passione per coloro che via via vi siederanno. Su un lato, la sedia da cui il percussionista Toshi Tsuchitori evocherà i ritmi tribali della guerra devastatrice. A raccontarla si alternano il vecchio Re cieco Dhritarashtra, che in quella terribile guerra ha visto trucidare tutti e cento i suoi figli, e il giovane nipote suo avversario, Yudishtira, primogenito dei cinque fratelli colpevoli dell’ecatombe. Accanto a loro le figure consigliere e conciliatrici dei co-protagonisti, ovvero il saggio nonno del ragazzo agonizzante nella mattanza, e il non meno saggio fratello di Dhritarashtra, oltre a Kunti, unica figura femminile e madre di Yudishtira.
Sono i sopravvissuti a farsi testimoni, in un cortocircuito che non può non chiamare alla mente lo shakespeariano Orazio; non a caso Peter Brook è considerato uno dei maggiori conoscitori e frequentatori del Bardo: è a lui che Amleto affida la memoria di uno sterminio similmente tanto privato quanto insensato. Se il focus, però, lì era sul passaggio testimoniale e, solo in seconda battuta, di reggenza/trasmissione regale (del potere quindi), qui s’indugia di più sulla sopravvivenza che, da condizione dell’essere scampati incolumi agli eventi, si trasla in una sua problematizzazione etica ed interiore. Più vicina ad un senso di giustizia, col rimorso e con la colpa e anche con la sua liberazione. Sta qui la spiegazione di come sia narrazione di fatti di guerra: contro sé, in filigrana, e le proprie resistenze. Non dissimile dalle nostre “Iliade”, “Enedide” o “Ciclo Carolingio”. Si intravede un Edipo, in quel Re cieco e mutilato dal fratricidio dei figli qui cugini, o lo stesso Omero cantore o il Lear di shakespeariana memoria. “Battlefield” canta sanguinosi stermini, colorandoli di eguale valenza epica, etica e mitico-religiosa, evocando divinità, presenze dalle fattezze antropomorfe, nel tentativo di dare un senso a quello che gli antichi Greci, non trovandolo nel muthos, andarono a chiederlo alla filosofia. Eppure si passa sempre attraverso la drammatizzazione teatrale, momento irrinunciabile, in ogni cultura, per dar forma e sfogo e risoluzione ai propri fantasmi: è da sempre nel consesso attorno ad fuoco, divenuto poi sacro, che gli uomini di ogni epoca e cultura si sono riuniti a cercare plastiche risposte comuni.
Quindi un fare teatro nella sua essenzialità di abiti archetipici, nella sospensione simbolica di oggetti basici, dalla polivalenza meta temporale e in quelle luci calde, capaci di accendere emotivamente uno scorrere altrimenti a rischio, di risultare algido e scostante, nell’affondare le radici nei primordi dell’umanità. Quasi in un tempo mitico, immobile e anteriore al fluire della storia, e quello che sembra contare davvero è la durata dell’hic-et-nunc, più del rincorrere bulimico di attimi ugualmente interscambiabili, perché tutti destinati al nichilistico non senso di una fine senza redenzione.
Sono proprio questa densità temporale – il gesto lento e dispiegato eppure dallo spessore ipnotico – e questo magnetismo interpretativo, a guardare questi attori-abissi si rischia di precipitarci dentro – a catturare il pubblico. Stupisce la linearità di un racconto capace di alternare, alla potente vivacità lirica nel rievocare le stragi, dialoghi dalla misura quotidiana e prosaica eppure pervasi da quella poesia quasi spicciola, in grado di farla assaporare specie negli aneddoti sapienziali. È questo, alla maniera orientale – ma era così anche nelle favole di Esopo o nei dialoghi platonici -, il modo con cui si sceglie di fornire spunti di riflessione autonoma più che risposte pre-fabbricate, percepibile anche nel temperamento recitativo degli attori. Karen Aldridge, Edwin Lee Gibson, Jared McNeill e Larry Yando si muovono lungo gli invisibili vettori di una regia visionaria e ortogonale con la naturale sospensione di chi abita universi paralleli. Uomini dall’umanità misurata, ma tangibile ed impalpabili semi-divinità chiamate a compiti più alti di loro. Attori a servizio di un pubblico, con cui energicamente non smettono mai d’interagire (una volta terminate le gag), regalandoci quella stessa sensazione quasi fisica di essere catapultati nei corpi, nei mondi e nelle pance altrui, a tratti raccontata dal giovane Yudishtira. Ma se noi siamo lui, cosa c’insegna, questo viaggio iniziatico? Certo ad abbandonare l’accanimento dell’uomo occidentale (si parla si destino, di accettazione e di conciliazione come gesto virtuoso), in quanto capace di valorizzare il buono); se la risposta migliore è in ciascuno di noi, allora restiamo in ascolto di quel tamburellare – sempre più lieve -, con cui chiude, pacificandoci, lo spettacolo dove si è scelto di rinunciare ad una risposta-verdetto.
[Immagini e video di repertorio]
Visto a Genova, Teatro della Tosse, domenica 4 marzo 2018.