RUMOR(S)CENA – ENRICO IV – TEATRO ARGENTINA – ROMA – Quello che Carlo Cecchi sta portando in tournée è un Pirandello al cubo, in cui la dimensione del metateatro è potenziata da un ulteriore livello di realtà. Mettendo in scena una delle opere più fortunate del drammaturgo siciliano, ma anche una delle più codificate nel senso del cosiddetto “pirandellismo”, il regista trova una pista originale, per dare nuova vita ai personaggi e alla loro vicenda. Nell’Enrico IV prodotto da Marche Teatro non si percepisce però nessun tentativo di superare l’opera di Pirandello o di ridimensionarla, come ha sostenuto qualcuno. In linea con quanto scrive Cecchi nelle sue note di regia, lo spettacolo si muove «con Pirandello e anche contro Pirandello», da una parte rimanendo aderente alla lettera del testo, dall’altra prendendo una distanza di sicurezza (anche con l’improvvisazione) che consente al regista-interprete di entrare nel gioco metateatrale – e quindi ancora pirandelliano – e di trovare uno spazio di azione inedito.
Pur ammiccando alla contemporaneità e sottolineando la distanza temporale e di visione del mondo dall’orizzonte del dramma andato in scena nel febbraio del 1922, Cecchi non vuole proporre un’attualizzazione o una versione personale dell’Enrico IV, in linea con una nuova idea di teatro. Al contrario, la messinscena rimanda continuamente al testo del drammaturgo che diventa un sottotesto che lo spettatore dovrebbe conoscere.
Solo ricordando l’evolvere dell’azione drammatica e lo sviluppo dei personaggi si riesce a cogliere l’operazione di allusione, sostituzione, sottrazione, superamento, sottolineatura, enfasi dell’opera pirandelliana cui Cecchi dà vita. L’adattamento sembra giocare con la pièce, prendendo le distanze dal mito che su di essa è stato costruito da un secolo di allestimenti. Il regista torna alla parola letteraria, ponendosi nella prospettiva in cui si poneva lo stesso Pirandello, quando nei Sei personaggi in cerca d’autore alludeva al suo Gioco delle parti. Come il Capocomico anche Cecchi sembrerebbe essersi «ridotto a mettere in scena commedie di Pirandello, che chi l’intende è bravo, fatte apposta di maniera che né attori né critici né pubblico ne restino mai contenti». L’operazione è identica e identico è il risultato: lungi dal negare o dal mettere in discussione, lo spettacolo afferma la validità del classico, indicando una strada per portarlo in scena nel XXI secolo.
È nello svuotamento del testo pirandelliano che Cecchi crea gli spazi per i momenti più interessanti del suo allestimento. Penso in particolare alla scena iniziale, affidata ai quattro valletti, come nell’originale, ma con compiaciuto gusto per la moltiplicazione delle prospettive. Per quanto la presenza scenica di Carlo Cecchi sia quella del grande attore, come del resto prevede il ruolo scritto per Ruggero Ruggeri, l’adattamento mira a dare spessore anche alle altre figure, che si avvalgono di ottimi interpreti. E se i ruoli di Donna Matilde, (Angelica Ippolito), del Dottore (Gigio Morra) e di Belcredi (Roberto Trifirò) e in parte anche di Frida (Chiara Mancuso) e Di Nolli (Remo Stella) avevano uno peso significativo già nella pièce originale, quelli dei quattro finti Consiglieri Segreti (Vincenzo Ferrera, Dario Caccuri, Edoardo Coen, Davide Giordano) guadagnano nella riscrittura una nuova portata drammatica. A loro è affidata la costruzione di una messinscena della messinscena, da cui escono per rivolgersi direttamente al pubblico, aggiungendo alla dimensione della finzione per il pazzo, quella della finzione per l’allestimento spettacolare.
È questa la chiave su cui Cecchi costruisce la sua interpretazione: al binomio pirandelliano tra verità e finzione si è aggiunto un terzo elemento, quello dello spettacolo. I quattro valletti disegnano questa linea di lettura, divenendo protagonisti, con Enrico IV, della scena del trono, intorno a cui si consuma il dramma. Il dubbio della follia reale o simulata è potenziato dalla scena restituita dagli specchi, che moltiplicano e allontanano dal pubblico l’azione, sottraendo oggettività alla percezione. Il reale che si frantuma e viene sostituito dal proliferare delle opinioni sembra una rappresentazione della comunicazione al tempo dei social. D’altra parte alla tragedia che Pirandello inseguiva nel 1922 si è sostituita la farsa, come meglio adatta al mondo contemporaneo.
La farsa è il comico che irrompe, sono le allusioni alla cultura del presente o i riferimenti pop. Ma è anche il grido «hanno ucciso compare Turiddu!» che fa deporre le maschere e fa confessare al protagonista di aver sempre finto la sua follia, mentre tutti gli altri continuano a vivere la propria istericamente. Scegliere la farsa significa continuamente mostrare il copione, come quando il valletto-suggeritore imbocca le battute giuste al protagonista. E dove Pirandello toccava il tragico, con l’uccisione di Belcredi e il rinchiudersi di Enrico IV nella sua maschera, Cecchi risponde con un invito all’attore ad alzarsi e a ricordarsi che domani c’è un’altra replica. Il testo diventa un copione da mettere da parte, per far entrare quella che sembrerebbe essere la realtà. Ma, per dirla con il Capocomico «che verità! Mi faccia il piacere! La verità, fino a un certo punto!».
Visto al Teatro Argentina di Roma il 16 febbraio 2019.
Enrico IV di Luigi Pirandello
adattamento e regia Carlo Cecchi
scene Sergio Tramonti, costumi Nanà Cecchi, luci Camilla Piccioni
Produzione Marche Teatro