RUMOR(S)CENA – BASSANO DEL GRAPPA – Il nome dell’Odin Teatret richiama alla mente il teatro di ricerca denominato in seguito come Terzo Teatro, il cui significato è un nuovo modo di praticarlo capace di smarcarsi da quello considerato ufficialmente “primo teatro” ma anche da quello d’avanguardia. Pensato nella direzione di un teatro “povero” di cui Grotowski è il padre fondatore, con l’obiettivo di non cercare la competizione con altri mezzi di comunicazione al fine di non rischiare di svilire il proprio lavoro, ma di guardare al passato e alle origini stesse del teatro. E chi ne ha seguito le sue orme è stato un “discepolo” di Grotowski: Eugenio Barba che del Terzo Teatro ne ha fatto una filosofia di vita artistica, proseguendo gli insegnamenti del suo maestro con la pubblicazione nel 1976 del “Manifesto del Terzo Teatro”, dove si dichiara la necessità di avere un attore protagonista nella direzione di un sguardo rivolto verso chi lo fa; senza ricorrere a espedienti diversi da quello della rappresentazione teatrale, come nel caso della tradizione orientale. Raccontare la vita dell’Odin Teatret non è facile per tentare di condensarla entro un perimetro narrativo.
Lo stesso Barba ha scelto di riassumere i 30 anni di testi degli spettacoli firmando “Il tappeto volante”, una sorta di lezione/dimostrazione più che uno “spettacolo/dimostrazione” come si legge nel catalogo del Festival B.Motion di Bassano del Grappa in cui viene spiegato come “il testo è un tappeto che deve volare lontano” e annunciato dalla stessa protagonista Julia Varley, attrice storica dell’Odin. “Poche spiegazioni essenziali accompagnano il lavoro vocale che esemplifica il passaggio dello scritto allo spazio, dalla freddezza della carta alla libertà dell’interpretazione”. Fin qui le intenzioni del regista che affida alla voce e presenza dell’attrice il non facile compito di raccontare il complesso percorso artistico e drammaturgico, che lei stessa affermava in una precedente occasione per spiegare come gli spettacoli dell’Odin: “nascano da un lavoro collettivo che trova poi una sintesi nella drammaturgia”. La Varley affronta la prima parte con una serie di esercizi vocali mirati a far comprendere al pubblico quante intonazioni/registri si possono applicare per declamare la stessa parola/frase recitata. Una sorta di compendio divulgativo per aspiranti attori/attrici, piuttosto che una prova d’attrice, qual è la Varley, per cercare un consenso da parte del pubblico.
Va certamente riconosciuta l’intenzionalità di dimostrare quanto sia fondamentale la ricerca intrapresa da Barba, insieme alla sua Compagnia, al fine di dare un senso compiuto al mandato che intende porre (sempre) al centro della scena, l’importanza dell’attore, dotato di una vocalità/gestualità, come mezzo espressivo unico e insostituibile, ma nella versione proposta il rischio di eccedere in una sorta di autocompiacimento risultava fin troppo presente. Julia Varley cita anche alcuni degli spettacoli che l’Odin ha realizzato dal suo esordio fino ad oggi, a riprova dell’impegno profuso nel portare in giro per il mondo le tournée che hanno reso celebri le regie di Barba.
Appare più come un omaggio che rivolge lo sguardo all’indietro e velato di malinconia per un tempo che non c’è più, e che ha un limite dato dall’operazione in sé: ovvero di raccontare un’esperienza fondamentale per la cultura teatrale del novecento, ma ascritta più ad una rievocazione e non ad un viaggio immersivo, coinvolgente nel quale ognuno avrebbe potuto ritrovarsi; sia per chi ha avuto la possibilità di assistere ai loro spettacoli, sia per chi non è stato così fortunato, per ragioni anagrafiche o di vicinanza, con i luoghi in cui andavano in scena. Il tappeto volante diventa (forse) una dimostrazione (almeno in parte) di un metodo di lavoro con tutti i presupposti che può avere se le intenzioni registiche miravano ad altro. L’Odin Teatret ha prodotto 79 spettacoli rappresentati in 66 nazioni diverse. In poco più di un’ora l’attrice si è cimentata in una sfida enorme nel ripercorrere trent’anni di storia del suo teatro con l’intento di ripercorre gli allestimenti , unendo la sua personale esperienza artistica e personale, con l’intento di trasmettere le emozioni di una carriera straordinaria.
Condensare in pochi minuti l’evoluzione poetica, le creazioni per la scena, la costruzione drammaturgica incentrata sui personaggi rappresentava un rischio eccessivo che forse andava calcolato, affrontato e risolto diversamente. La presenza di Eugenio Barba a Bassano, su invito del Festival, prevedeva anche la messa in scena di Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa per la regia e drammaturgia firmate da Barba (unica sua regia esterna all’Odin) , Lorenzo Gleijeses (anche protagonista), e Julia Varley. Il tentativo è quello di assemblare in un unico “corpo” drammaturgico – artistico e scenico riferimenti biografici da Franz Kafka, il protagonista del suo romanzo La Metamorfosi (Gregorio Samsa) e quella di “immaginario danzatore omonimo che rimane prigioniero della ripetizione ossessiva in vista di un imminente debutto. Gregorio Samsa è infatti convinto che attraverso la ripetizione sia possibile arrivare ad un alto livello di precisione tecnica e di qualità interpretativa…” – è scritto nelle note di presentazione dallo stesso interprete sulla scena. Obiettivo ambizioso che voleva trovare una chiave di lettura originale, traendo spunto dall’opera di Kafka e avvicinare il protagonista dell’opera letteraria con lo sforzo coreografico, fisico e artistico del danzatore, un ruolo costruito su misura per l’attore Gleijeses.
L’ossessione della ripetizione del gesto, del lavoro di prove con l’intento di arrivare alla perfezione assoluta, la sua maniacale cura nel cercare di raggiungere il livello di prestazione più elevato si confronta con Gregorio Samsa trasformatosi in un insetto. Il figlio che scrive al padre Kafka nella celebre lettera al padre si interseca con i messaggi che il danzatore invia alla sua fidanzata, in risposta alle sue rimostranze nel trascurarla; entrambi si sentono incompresi da chi non coglie le loro inquietudini, l’incapacità di non saper amare come gli altri. Si ode fuori scena la voce registrata di Eugenio Barba per istruire l’attore in scena, lo esorta a riposare e rinviare la prova al giorno dopo, e poi anche quella del padre di Lorenzo. Il rapporto tra allievo e il suo maestro mentore ma anche quello del padre che non comprende i tormenti del figlio.
L’inizio di Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa ha qualcosa di onirico, in cui emerge dall’ombra la figura del danzatore, in un breve assolo che dimostra tutta la sua presenza corporea espressiva in un gioco di chiari e scuri, capace di creare un’atmosfera sospesa e rarefatta, ma poi evolve con scelte registiche fin troppo caricate di segni e di linguaggi, di impegno fisico eccessivo che rischia di implodere pur riconoscendo a Lorenzo Gleijeses una preparazione solida, perfino virtuosistica dell’azione, percependo quasi una sensazione di saturazione per quanto accade. Le telefonate alla sua psicoterapeuta, le chiamate alla fidanzata che si lamenta della sua continua assenza, tutto concorre a creare un sovraccarico di troppe idee, derivanti da intuizioni registiche firmate da tutti e tre e che hanno comportato un eccesso di soluzioni. La scelta di attraversare l’opera di Kafka utilizzandola per creare una sorta di parallelismo, capace di entrare in risonanza con il vissuto del danzatore, desta alla fine qualche perplessità alla luce di come tutta l’azione si svolge che appare più una dimostrazione di stile fine a se stessa che sembra non andare oltre ad un certo manierismo stilistico.
Visti a OperaEstate Festival Veneto 41 B.Motion di Bassano del Grappa il 25 agosto 2021
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