- MILANO – Poche immagini restituisco il deformante senso di estraneità che dà la solitudine, quanto la stanza di Arles del celeberrimo dipinto di Van Gogh. Poche situazioni sociali della contemporaneità, del resto, ci parlano dell’asfissia dell’isolamento relazione, quanto il fenomeno dell’ “Hikikomori”, uno spaccato dell’oggi, che sempre più spesso riguarda non soltanto la fascia adolescenziale: trincerarsi nella propria dimensione domestica per accedere/sfuggire al mondo, sbirciandolo di sguincio dal “windos”/finestra del pc come attraverso le stecche di una veneziana. Se mettiamo insieme tutto ciò, quel che ne può venir fuori è la scenografia di questo “Amleto FX” di e con Gabriele Paolocà, che già da sola ci proietta nel suo Sitz-im-Leben.
Selezione In-Box 2015, Premio Hystrio alla vocazione 2015, Shakespeare Files #3, trae spunto da una delle storie più raccontate del teatro moderno occidentale, ma poi la declina, fra arguzia e ironia, secondo paradigmi assolutamente quotidiani. Quel che interessa, infondo, non è la trama. I personaggi vengono come squadernati in una galleria ideale, in cui di ciascuno viene estratto e icastizzato il nucleo pulsante. Che sia il sottile gioco parodistico di una social grammatica declinata a suon di emoticon nella chat via messanger o il canone grottesco e sarcastico del becero “Giano” demenzial nazi Rosencratz/Guildestern o, ancora, della gaudente e spensierata coppietta pop Geltrude/re Claudio in vacanza a Forte dei Marmi, poco conta; è come un’escussione di fantasmi, comparse, forse testimoni inconsapevoli, a implicitamente supportare la “nausea” di quel bamboccione di Amleto. Svezzato a bibon carichi di spritz, non gli resta che arrendersi alla lusinga del nulla, sembra, di fronte a quel marcio, che sempre più palesemente appare non essere relegato alla sola Danimarca. Nessuna assoluzione: né per lui, né per chi lo circonda; nessuno spiraglio di speranza che possa far aspirare a una qualche redenzione. Così, se nell’intreccio shakespeariano c’è il valore esemplificativo del racconto e della memoria a dar quasi un senso alla tragedia, qui nessuna impennata verso l’alto. Al contrario.
Tutto, qui, sembra precipitare inesorabilmente verso il baratro, perché non c’è intreccio, profondità, radicamento, senso, ma solo una vacua liquidità orizzontale entro la quale non si può far a meno di affogare. E mentre a Ofelia non si intima più di ritirarsi in “convento” (lo stesso termine, in inglese, copriva pure l’ambito semantico di “bordello”, restituendo, nella medesima battuta, tutto il tagliente disprezzo ostentato da chi si senta tradito dall’intero genere degli uomini), con altrettanto, ma più inconsistente disprezzo, qui le si suggerisce di accertarsi di essere a favore di smart phone, mentre s’immola in un atto istrionico, che sa più di media business che di deriva esistenziale.
Ecco, forse questo, uno degli interventi drammaturgici di Paolocà sul testo: spiluccarne gli acini più aspri – in fondo, poi, spesso i più noti – e poi spremerne il succo acido sulla macedonia dell’oggi, mostrando come, al netto di inevitabili tagli e omissioni, il gioco del rispecchiamento teatrale ancora funzioni; ché non stiamo in fondo parlando di cose così differenti; e che se la lingua e registro sono diversi, basta sostituire i termini di riferimento per ottenere un risultato non dissimile. Cavalca tutti i miti pop, compresa un’improbabile e proprio per questo irresistibile Marilyn Monroe nella farsa degli auguri al “Mrs President” Re Claudio. Poi certo convince nel gioco attoriale dell’ammiccamento e nei contorsionismi grotteschi, non meno che nel recitato d’impostazione classica, sfoderando una modulazione timbrica e mimica di tutto rispetto. Probabilmente un’operazione dal valore pedagogico che, mentre tratteggia i personaggi principali della tragedia del Bardo, seppur ne tradisce la trama, a tratti, ne restituisce comunque il senso, in quell’inevitabile meccanismo d’identificazione con la condizione di Amleto.
Prima che principe, è uomo; prima che obbligato dai doveri di rango, è imbarcato e sballottato in tutta la vischiosità fluttuante fra reale e virtuale, fra essere e non-essere ma forse apparire – nuova condizione dell’esserci e quindi dell’essere -, che ciascuno di noi sperimenta. E chissà che non sia, proprio quest’alienazione, in cui lo stesso fantasma di Amleto padre si risolve nella sopravvivenza di sé entro il filmino di un karaoke, una rinnovata dimensione dell’esserci-dasein; chissà che alla fine non si possa trovare, così, un modo per “salvarsi” dall’impassibilità di un destino giusto, ma inesorabile, di contro a questa liquidità contemporanea, che forse guadagna in orizzontalità e leggerezza, quel che ha sacrificato alla rigida e impietosa barba dei filosofi.
(Francesca Romana Lino)
MILANO – Amleto si manifesta come un uomo tormentato dai suoi fantasmi, inquieto per lo stesso suo vivere sempre in bilico tra sentimenti agiti e pulsioni irrisolte. Un uomo incapace di trovare un senso compiuto alla propria esistenza: precaria, illusoria, evanescente, irrisolta e perfino autistica. L’Amleto di Gabriele Paolocà ha deciso di segregarsi in una stanza e di non uscirne più. Non soddisfatto della sua prigionia (fisica e mentale) arriva a meditare il gesto più estremo che un essere umano possa pensare, sapendo che la vita di cui lui è vittima e carnefice non concede sconti, tanto vale farla finita. Una corda sospesa ci dice che solo il suicido potrà far cessare quel malessere ormai divenuto uno stile di vita, esibito come una condizione d’obbligo anche nella nostra società contemporanea. Il male dell’anima sembra contagiare chiunque e lui, Amleto, lo esalta a tal punto da sfogarlo con irruenza sulla scena. La solitudine solipsistica di cui soffre è irreversibile, ostaggio di illusorie relazioni, simili a sospiri e desideri incapaci di materializzarsi. L’ironia viene in soccorso e c’è spazio anche per annegare nell’alcol prima del fatale gesto. Sul desk del suo computer ondeggiano teschi umani, collegato sui social network, di cui tutti siamo diventati ostaggi, nell’ultimo disperato e invano tentativo di trovare sollievo in chi sta dall’altra parte, in cerca delle stesse emozioni negate.
Questo Amleto ha il merito di portare un pubblico giovanile a teatro (nella replica vista, erano in numero maggiore rispetto ad un pubblico adulto over 40/50), sul quale conviene riflettere. Le celebrazioni dei 400 anni dalla morte di Shakespeare sono un’occasione ghiotta per molti gruppi di teatro contemporaneo e di ricerca: così come ha fatto Vico Quarto Mazzini. Partendo da “Essere o non essere”, frase tra le più celebri della letteratura di tutti i tempi, esclamata dal “pallido prence danese”, qui si assiste ad un’indagine su come oggi sia sempre più difficile se non impossibile, trovare una dimensione vitale che possa procurare un reale benessere. il teatro appare sempre più uno spazio dove “denunciare” questa sofferenza (se pur giocata registri anche grotteschi, ironici, sapientemente dosati dall’attore e dalla regia, come il travestimento al femminile con vistosa parrucca e un trucco marcato), come può fare un clown che ci fa ridere ma lui dentro di sé, al contrario, piange. Indossa anfibi e calza le braghe a palloncino di età cinquecentesca, comunica via Skype con Gertrude e Claudio in ferie a Forte dei Marmi e via chat con Orazio e Ofelia. Non ci si parla più de visu, principale causa dell’alienazione psichica che impedisce la relazione con l’altro.
Tutto è limitato ad un dialogo reso castrante dal progresso tecnologico e ogni sforzo per cercare di riappropriarsi della propria specificità viene vanificata. Le giovani generazioni artistiche si confrontano ogni giorno con queste barriere, ostacoli, muri, dettati anche dall’indifferenza che fa scivolare via tutto senza possibilità di soffermarsi a capire. Il pensiero ragionato e sedimentato non viene stimolato e basti pensare ai tanti format televisivi dove vige la legge di chi urla più forte, aggredendo chiunque voglia difendere la propria idea. Il pubblico a teatro ha ancora questa possibilità, a patto che trovi, sulla scena, chi è cosciente di volere un confronto diretto, leale, trasparente. Amleto rinuncia alla fine di togliersi la vita e si congeda con un finale che non trova una parola definitiva per chiudere un godibile spettacolo, e questo è l’interrogativo che ci resta come qualcosa di irrisolto: se la tragedia virava dal principio alla fine come lo stesso Shakespeare ci fa capire: Amleto tormentato dal dolore per la perdita del padre ucciso medita il suicidio. Non per nulla il monologo “to be or not to be” fa capire come uno possa essere considerato codardo chi non ha il coraggio di togliersi la vita; per paura della morte, e su questo si aprono scenari che sconfinano nella psicoanalisi, nella paura dell’ignoto, istinto primordiale dell’uomo che fa di tutto per farci stare in vita e non ci fa cadere in tentazione nel togliersi la vita, nonostante sia fonte di dolore e ingiustizie. Amleto non si procura la morte ma la subirà nel tentativo di procurarla ad altri tentativo di vendicarsi del male subito. Amleto rinuncia e scende dal cappio. E se invece lo avesse fatto ? E se avessimo assistito ad un finale che non ci da speranza? Uscendo dal teatro l’interrogativo circolava come un dubbio e non poteva che definirsi amletico.
(R.R)
Amleto FX
Vico Quarto Mazzini
uno spettacolo di e con Gabriele Paolocà
collaborazione alla regia Michele Altamura, Gemma Carbone
scene Gemma Carbone
disegno luci Martin Emanuel Palma
Visto al Teatro Sala Fontana di Milano, il 30 aprile 2016