Teatro, Teatro recensione — 07/10/2017 at 14:47

L’onirico “Valore d’uso” nella poetica dell’inclusione di Antonio Viganò

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MILANO – C’è un teatro che urla e che provoca, un teatro che risveglia gli scheletri dai loro avelli e li getta lì, a danzare, scomposti, davanti agli occhi degli attoniti astanti. C’è un teatro che si arrocca nel più straniante dei non sense e da lì sferra i suoi affondi pungenti, contro una società o un’esistenza oramai alla deriva. Perché racconta, ironizza, commuove, enfatizza, performa, intrattiene: tutto è lecito, come nella vita. E poi c’è un teatro prezioso e piccolo, di quelli che ti accompagnano per mano in atmosfere oniriche e felliniane, dove il surreale non teme lo sberleffo della legge di causalità: in cui tutto è possibile e sussurrato attraverso immagini che scaldano il cuore.

Ecco, di questa natura è “Valore d’uso”, progetto e regia di Antonio Viganò, Teatro La Ribalta /Accademia Arte della diversità di Bolzano, all’interno di un’operazione sinergica, che vede in campo la consulenza drammaturgica e alle immagini di Gigi Gherzi (fondatore ed anima di Teatro degli Incontri) e la produzione ATIR (in collaborazione con Comunità Progetto nel disegno integratoGli spazi del Teatro”). Stiamo parlando di quell’ATIR, ventennale compagnia milanese, che con questo spettacolo inaugura la sua stagione “On The Road”, a causa della mancata rimessa a bando, per ragioni di manutenzione spazi, del Teatro Ringhiera, da dieci anni sua residenza storica.

Già ma cosa s’intende, di preciso, con l’espressione valore d’uso? Il dizionario la definisce come: “ La capacità di un bene di soddisfare determinati bisogni” e la partitura drammaturgica si diverte a giocare su questo binomio. Contro ogni regola di mercato, qui bene diventa quello stesso essere umano, che, di solito, ne è invece il fruitore e, sempre in una logica inusuale e ribaltata, bisogno ed uso si confondono fino a mostrare la loro quasi sovrapponibilità.

Chi ha bisogno di chi? E chi ne fa uso? In scena tre coppie di co-protagonisti: Matteo Ambrosini, Edoardo Busnati, Cristina Ciminaghi, Luana De Lucia, Massimiliano Pensa e Chiara Tacconi. Abili, alcuni, diversamente abili, gli altri; ma, alla fine è proprio questo, il punto: per gli uni come per gli altri – per loro come per noi, in un transfert incessante e incessantemente reversibile -, pare che la fatica sia la stessa. Piacere, essere accettati, conformati, “abbastanza”, in controluce l’eco di un mondo che ci vorrebbe sempre performativi e all’altezza. In realtà da quell’Olimpo, tutti noi ne siam stati scacciati ed ora non resta che rialzarsi e provare a danzare sulle note di canzoni pop, ma di quelle che, a ben ascoltarle, ce lo dicono già del bisogno dell’altro, della fatica di scalare una montagna. Il riferimento è al testo di Tenco: “Se stasera sono qui” -, dell’amore – forse solo vero valore d’uso -, o della possibilità dell’auto accettazione come percorso certo lungo e non facile, ma, ciò non di meno, non per questo impossibile, come cantava la Rettore in “Splendido splendente”. E poi il minuetto mozartiano ad alleggerire – ma nel senso calviniano del termine, in cui leggerezza non è superficialità (ma planare dall’alto sulle cose e non avere macigni sul cuore) – o il ritmo coinvolgente della mazurca, perché in fondo è vero che nessuno si salva da solo.

 

In scena, una parete inclinata, dalla quale lo si capisce subito che se forse può esser divertente lasciarsi scivolar giù come bambini, risulta invece troppo ripida, o così almeno sembra, per poterla risalire, a ritroso, come fanno i ragazzini quando si sentono troppo grandi per continuare a giocare allo scivolo nel modo consueto. E, una volta giù – riecheggia la suggestione del lapsus, la caduta/scacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre o quella deiezione esistenziale di heideggeriana memoria, che ci rende tutti vulnerabili abitatori di un mondo in cui nessuno ha scelto di nascere -, in fondo non ci sono poi sostanziali differenze. Certo, alcuni sono abili, ma già la dice lunga, l’onirica figura dell’omino che, testa lucida, contornata da un codino residuale della chioma che fu, col suo surreale vestito da debuttante in raso celeste pallido, per primo svolazza a risvegliare quel Teatrino delle Meraviglie, scrollando di dosso la polvere che ancora intorpidisce i suoi imbalsamati compagni. Ci dice che non c’è un noi e un loro, in quest’esito di teatro integrato, in cui ciascuno porta la propria vulnerabile fragilità: ce lo dice attraverso azioni sceniche ripetute fino a includere anche gli attori diversamente abili.

 

Ce lo dice in un costante e ironico ribaltamento dei ruoli e in un’alternanza, in cui sembra essere più la condivisa condizioni umana, che non la quasi fortuita limitazione dell’handicap, quel che davvero fa la differenza. Così le temibili scarpe rosse dal vertiginoso tacco a spillo, ad esempio, non sono ostacolo solo per la signora con difficoltà di deambulazione – ma che invece, argutamente, se le disegna addosso, col rossetto scarlatto, scardinando, giocosamente, gli argini del possibile. Lo sono anche per la ragazza procace, che pure inciampa, tentenna e sembra quasi darsi per vinta. Eppure se, alla fine, è lei che riesce ad averne la meglio, non diversamente fa, l’altra, che in fine sfila, a braccetto con lei, in una trionfale diagonale scenica. E via così: perché se in molti casi gli attori diversamente abili forse avrebbero difficoltà a sciorinare verbosi testi teatrali, il gioco empatico sta nello scandirlo in sequenze di senso, in azioni possibili, giocate e condivise e accese da guizzi d’ironia (come il down a tal punto “bambolottizzato”, che finiscono col chiederselo cosa davvero sia, il politically correct) e da lampi di poesia (fra tutte: l’omino molla o il suonatore di una fisarmonica a piume).

A fine rappresentazione non posso non pensare alle profonde analogie di senso, pur nella diversità di cifra, mezzi e interpreti, con “Bestie di scena” di Emma Dante. La stessa deiezione e cacciata e lo stesso tentativo di far fronte comune per non soccombere. Questo, in fondo, ci raccontano le due non a caso partiture sceniche (nel caso della Dante, poi, senza supporto alcuno della parola); eppure uno smarrimento altro, nelle due Weltanschauung. Diverso, infatti, è approcciarsi al mondo pensandolo dominato da un Fato cieco e malevolo – cattivo e vessante come, in fondo, può solo esserlo chi sia inconsapevole, ergo inemendabile -; diverso, all’interno di una visione capace di sublimare la fatica in un’aspirazione di bellezza, capace, forse, di agguantare un senso estetico – e chissà, forse pure etico.

 

 

Visto a Milano, Teatro La Cucina, il 6 ottobre 2017.

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