PISTOIA – Domenica 29 novembre: applausi calorosi e scrosci di risate salutano I 4 Moschettieri in America nella versione completa, appena presentata al Piccolo Teatro Mauro Bolognini. Nei camerini, dopo la recita, incontriamo Giovanni Guerrieri della Compagnia I Sacchi di Sabbia, la cui tensione è ancora palpabile per il debutto. Sorridente e contento per l’ottima accoglienza ricevuta dal pubblico, inizia subito a raccontarne la storia de I 4 Moschettieri, che risale a oltre 80 anni fa. Quando la Buitoni-Perugina di Sansepolcro decise di sponsorizzare, prima in Italia, la mitica rivista radiofonica firmata da Nizza e Morbelli che, grazie alla sua verve ironica e alla figurina introvabile del Feroce Saladino, divenne un programma cult per migliaia di italiani.
Definisce I 4 Moschettieri in America un radiodramma animato dedicato ad Angelo Nizza e a Riccardo Morbelli. Può raccontare ai lettori com’è nata l’idea di questo spettacolo?
Giovanni Guerrieri: «Nel 1934, per i dieci anni della prima emittente radiofonica italiana, la Perugina ebbe l’idea, anche su suggerimento del pubblicitario Aldo Spagnoli (figlio della famosa stilista), di sponsorizzare una rivista radiofonica. L’Eiar pensò, quindi, di commissionare la trasmissione ai due giovani autori, che scrissero però una parodia dei Moschettieri di Dumas. Adatta non solamente a un pubblico adolescente, ossia ai principali consumatori di cioccolata, ma anche agli adulti. Poi, venne indetto un concorso abbinato alla raccolta delle figurine – vendute insieme ai prodotti dello sponsor – e, per i disegni, fu contattatato Angelo Bioletto (che sarà tra i disegnatori de La rosa di Bagdad, secondo film d’animazione europeo, n.d.g.). Da quel momento si scatenò una vera e propria “moschettieromania”. Non era possibile perdersi nemmeno una puntata della rivista. Il successo fu tale che la trasmissione fu spostata all’ora del pranzo domenicale, costringendo la FGC a posticipare di mezz’ora l’inizio delle partite di calcio per permettere ai radioascoltatori di seguire la trasmissione».
Sembra che ci sia un recupero del radiodramma anche in funzione teatrale. Pensiamo, ad esempio, all’Elfo Puccini di Milano che, nel 2012, presentò Autorevole, su un’idea di Sergio Ferrentino. Come mai questo interesse de I Sacchi di Sabbia?
G. G.: «Innanzi tutto perché abbiamo un certo gusto vintage. Personalmente, ho entrambi i volumi originali di Nizza e Morbelli con le illustrazioni di Bioletto. Inoltre apprezzo la storia della rivista e, anche dal punto di vista della tipologia attorale, dove lo trovano uno più adatto di me a interpretare il ruolo del moschettiere? A parte gli scherzi, la radio è un mezzo di comunicazione che apprezziamo, e non è un caso se abbiamo realizzato due radiodrammi originali per il Festival di Santarcangelo, poi trasmessi da Rai Radio Tre. Il primo, nel 2013, intitolato Marmocchio, una parodia di Pinocchio; e I 4 Moschettieri, l’anno scorso, per gli ottant’anni della radio. Naturalmente, sono imprese a budget zero che si portano avanti per il gusto di farle, e che non hanno futuro perché il prodotto radiofonico si trasmette una sola volta. Noi, però, come Compagnia, abbiamo sentito l’esigenza di recuperare il materiale quale base per un nuovo spettacolo».
Spesso con I Sacchi di Sabbia si può parlare di teatro povero, in senso alto (come per l’arte povera). Sandokan o la fine dell’avventura e I 4 Moschettieri sono emblematici in questo senso. Uno stilema necessario?
G. G.: «Il giocattolo, per noi, è una miniaturizzazione del mondo e la medesima allegoria si applica bene anche al nostro modo di vedere e intendere il teatro. Inoltre, la tipologia di oggetti usati con I 4 Moschettieri in America, come i libri pop up, permettono allo spettatore, e a noi che facciamo teatro, di tornare bambini. Questa tipologia di gioco ci confà sia a livello di gusto sia a livello attorale, dato che I Sacchi di Sabbia sono sempre in bilico tra il dentro e il fuori. In altre parole, ci trasformiamo con facilità da personaggi a funzioni, e viceversa».
Partire dai romanzi può essere considerata un’altra vostra caratteristica (I 4 Moschettieri, Sandokan). Come riuscite a trasporre un testo pensato per la lettura e la fruizione individuale in un mezzo scenico diretto a una molteplicità di persone contemporaneamente?
G. G.: «Lavorare con testi non teatrali ci costringe, innanzi tutto, a cercare soluzioni sceniche e drammaturgiche sempre differenti. Per fare un esempio, se uno spettatore vede Sandokan, che è giocato sull’uso della verdura con un semplice tavolo da cucina quale scenografia, e poi assiste a quest’ultimo spettacolo, si rende immediatamente conto che i mezzi espressivi sono completamente diversi. Inoltre, la bellezza dei racconti di Salgari e di Dumas è fonte di ispirazione. Certamente i due autori non sono comparabili, ma se si contestualizzano i lavori di Salgari si deve ammettere che la sua è una di quelle letterature minori che esprimono bene la propria epoca, senza l’appesantimento della grandezza che, spesso, è un’ombra minacciosa».
Tornando a Piccoli Omicidi in Ottava Rima, si nota il doppio binario sul quale vi siete mossi per la costruzione drammaturgica. Da un lato, i rimandi cinematografici per le azioni sceniche e, dall’altro, il Maggio Fiorentino per la parte recitata. Difficile amalgamare due tradizioni e mezzi espressivi tanti diversi?
G. G.: «L’idea di base era fare un Maggio con la Compagnia dei maggianti su L’invasione degli ultracorpi, che riteniamo un vero e proprio bruscello (il bruscello è sia un’antica forma di teatro popolare toscano che si teneva nelle aie e i cui cantori, in ottava rima, recavano una fronda d’albero sul capo; sia un termine dialettale che significa ramo frondoso, n.d.g.). Il soggetto del film era una specie di uomo-pianta che poteva trasformarsi, nel giro di una notte, in un umano e, a livello metaforico, lasciava intravedere temi quali il rinnovamento, la metamorfosi, la rinascita, la ciclicità della natura. A livello allegorico e di contenuti, questa storia di alieni, inventata da Jack Finney negli anni 50, in cui l’uomo è partorito dal suo doppio in un baccello, se scritta in ottava rima, sarebbe stata un bruscello perfetto. Da quest’idea sono partito per scrivere un atto unico che, però, i maggianti di Buti hanno rifiutato perché, per loro, i temi dovrebbero essere altri. A questo punto, la nostra Compagnia ha deciso di farne uno spettacolo spostando un po’ il tiro. L’invasione degli ultracorpi è diventato uno tra i quattro episodi messi in scena».
Passando a Don Giovanni, si potrebbe parlare quasi di antiteatralità. Come ha accolto il pubblico una proposta così radicale e come mai ne avete sentito l’esigenza?
G. G.: «Il Don Giovanni nacque come un esercizio d’ascolto. Era un gioco infantile sulla riproduzione del suono, che portammo avanti con un gruppo di ragazzi. Volevamo capire cosa riuscivamo a restituire vocalmente rispetto a quanto avevamo percepito a livello acustico. Ci incuriosiva comprendere come nasce quell’elaborato di suoni che chi non è musicista canticchia, dopo aver ascoltato un’opera. A questo punto il gioco dell’attore era quello di selezionare inconsapevolmente, restituendo però qualcosa di preciso. L’idea, quindi, era scegliere un’opera con la O maiuscola per riprodurla noi, minuscoli, con strumenti vocali un po’ da bambini. Il progetto poteva rimanere a livello di esercizio per affinare l’orecchio, o essere cesellato al punto da trasformarsi nella restituzione precisa dell’opera stessa con altri mezzi espressivi. Ha vinto la seconda ipotesi. Abbiamo scelto di impalare gli interpreti e lavorare solo sulla trasformazione del viso in funzione della riproduzione del suono. Grazie anche all’illuminazione giusta il risultato era esilarante, il pubblico di ogni età si divertiva davvero. Purtroppo il video su YouTube rendeva così poco che alcuni operatori che avevano già comprato lo spettacolo, su suggerimento di collaboratori o conoscenti del settore, se nel frattempo vedevano la versione filmata si spaventavano. Per nostra fortuna, si sono fidati di noi, e posso testimoniare senza tema di smentita che perfino i bambini delle medie si divertivano».
Ne I 4 Moschettieri in America sembra vi allontaniate dalla vostra ricerca sul suono e sulla rumoristica, in favore di una maggiore attenzione per l’aspetto visivo. Come mai questa scelta?
G. G.: «I libri pop up, le illustrazioni, le maschere, il teatro d’ombre, ci sembravano tutti elementi necessari. L’intero spettacolo può dirsi il frutto di un laboratorio, portato avanti da Giulia Gallo e Giulia Solano (le altre due componenti de I Sacchi di Sabbia, n.d.g.), l’illustratore Guido Bartoli e me, così da rendere ogni avventura dei moschettieri con una tecnica diversa. Il work in progress è stato entusiasmante ma anche una bella sfida perché lo spettacolo è stato messo in scena – prima della forma attuale di un’ora – in tre puntate da venti minuti l’una. Non facevamo in tempo a metterne in scena un frammento, che dovevamo inventarci qualcosa di diverso per il successivo».
I progetti per il futuro?
G. G.: «I 4 Moschettieri in America è pensato non solamente per i ragazzi ma anche per le famiglie e potrebbe avere un circuito ampio. Ci stiamo, quindi, attivando per la sua distribuzione sia a livello di festival estivi che di sale teatrali. Stiamo anche pensando a una versione per adulti con un maggior numero di attori in scena e, magari, a un prosieguo. Il testo di Dumas ci affascina, così come l’idea del radiodramma animato, e speriamo che anche il pubblico gradisca, come ha fatto stasera».