RUMOR(S)CENA – FIRENZE RIFREDI – I morti sono in netta maggioranza, anche in Pupo di Zucchero. Eppure è all’unico personaggio vivo che spetta diritto di parola perchè i morti, si sa, non possono replicare. Impasta un dolce fatto di farina e bei pensieri, l’unico sopravvissuto ai propri cari, muove i suoi morti come burattini nel teatro amorevole del ricordo, commuovendosi per come erano buoni e disperandosi quando non si attengono alla creanza della festa in loro onore.
Ancora una volta il teatro di Emma Dante invita il pubblico con il sapore di un tema universale, per poi disattendere le aspettative e andare molto più in profondità. Certamente in Pupo di Zucchero, che il Teatro di Rifredi porta per la prima volta in Toscana, è presente la poetica legata al cordoglio e alla spiritualità atavica, ma tra i simboli rappresentati in scena c’è un vuoto che racconta anche altro.
Sono dipinti nel fiore della vita, gli spiriti dei familiari del protagonista. Il padre ad esempio, è un giovanotto in divisa da marinaio, eppure la dolce mammina francese è una signora ingobbita dalle premure domestiche, perché? Quelli che vediamo non sono spettri in visita dall’aldilà, ma fantasmi plasmati dalla memoria del vivo, che ha scelto come e cosa ricordare di coloro che non sono più. Di quei fantasmi tiene ogni bruttura chiusa in cantina, assieme alle spezie e agli altri ingredienti con cui dar sapore all’idolo che sta preparando, un pupo di zucchero dolce e perfetto, da ingurgitare e far suo proprio come ha fatto con loro. Attraverso questa lettura, un testo talmente essenziale da rasentare la laconicità si rivela invece denso d’indicazioni, che lo spettatore può raccogliere percorrendone le ellissi. Qual’è la vera storia dell’amore tra la sorella e l’aspirante matador, che il protagonista insiste a raccontarci ridicolo e inopportuno? Cos’è che viene taciuto a proposito della morte delle tre ragazze? Che cosa rappresentava di preciso Pasqualino, il naufrago africano, all’interno della famiglia? Il brav’uomo racconta di un tempo felice, di una casa buffa ma lieta, eppure c’è qualcosa che manca e ci è nascosto. Il fatto che sia così ossessionato dal poter perdere la chiave della cantina, o meglio che uno dei fantasmi gliela sottragga, fa di lui un carceriere. Lo dimostra il modo con cui gli spettri si comportano quando si allontana dalla scena: diventano voraci, scomposti e soprattutto lontani dai ruoli che il vivo gli ha cucito addosso.
Pupo di zucchero è un luogo dove non accade niente, un testo anti narrativo in cui “trama” è il materiale con cui Emma Dante confeziona un oggetto fermo, a disposizione dello sguardo degli spettatori. Non accade niente, ma succedono molte cose, perché è predominante l’aspetto performativo, con gli spiriti che danzano riempiendo il vuoto del palco e gli attori impegnati nel produrre con strumenti semplicissimi (nacchere, un secchio forato, campanelli) la ritualistica dei suoni. L’alternanza tra la scena quasi vuota e l’emergere di panorami corali, accompagna la visione in un flusso che diventa soprattutto emotivo, con la complicità di qualche sottofondo musicale, che non si perita di spingere il volume nei momenti di crescendo: soluzione forse non elegantissima, ma di un’efficacia incontestabile. Belle le luci di Cristian Zucaro, che scandiscono quelli che sono quadri soltanto a ripensarci, ma che durante lo spettacolo vengono percepiti come un continuum, in perfetto accordo con le intenzioni del testo. Il lavoro del cast e sul cast è sorprendente, sembra rispecchiare il procedimento dell’intera produzione: l’impressione è che ci si trovi davanti a uno spietato taglio del superfluo, a una riduzione radicale del volume complessivo, come se gli attori sappiano un’infinità di cose sui loro personaggi, le abbiano introiettate e poi eliminate, per restituire in scena l’immagine tridimensionale di un carattere che gli spettatori incontreranno, come farebbero con una persona reale, uno sconosciuto incrociato per strada. Spicca logicamente l’interpretazione di Carmine Maringola, che dimostra grande forza nel sostenere la struttura non banale di Pupo di Zucchero; ma la sensazione di osservare un gruppo umano definito, nel tempo ristretto del qui e ora, accresce la curiosità su ognuno di loro e provoca la piacevole sensazione di non poter approfondire tutto, o discernere le precise funzioni e competenze all’interno del lavoro. Molto interessante.
La particolare drammaturgia di Pupo di Zucchero rende difficile giudicare se, pur essendo l’assenza così significativa, non manchi comunque qualcosa a sancire il patto di credulità: può darsi che anche lo spettatore meglio disposto si trovi un po’ orfano immediatamente prima del finale, quando il Pupo viene sfornato e mostrato, in una sequenza appena fuori fuoco per ritmo e peso visivo. Ma riscatta ogni dubbio l’ultima scena, un raro esempio non tanto del gusto, quanto della necessità del macabro, persino all’interno di un teatro colto e ambizioso come questo. Le bambole realizzate da Cesare Inzerillo, cruda materializzazione di corpi morti, sono trasportate dai fantasmi e deposte con una dolcezza che tuttavia, non le solleva dal loro peso inerme. Immagine trionfale di una sconfitta, perfetta chiosa nel dialogo impossibile tra la vita e la morte.
Visto al Teatro di Rifredi di Firenze il 4 novembre 2022