RUMOR(S)CENA – CATANIA – Una versione musical e corale di “Liolà”, per diversi aspetti piacevole, nuova, rispetto a quella originale di Luigi Pirandello, adattata e ridotta da Mario Incudine, Moni Ovadia e Paride Benassai ha inaugurato lo scorso 1 novembre (previste repliche sino al 12 novembre) la stagione di prosa 2023/2024 del Teatro Vitaliano Brancati di Catania, diretto da Tuccio Musumeci. Il lavoro, prodotto dal Teatro della Città di Catania, in due scorrevoli atti di circa due ore, è una gradevole commedia musicale con canti, coreografie, balletti, maschere che, pur conservando le linee generali dell’originale e lo spirito pirandelliano, prendono il sopravvento sull’atmosfera campestre più compassata e recitata, pensata dall’Agrigentino.
All’origine “Liolà” nelle parole dell’autore, Luigi Pirandello, era stata definita una “commedia campestre in tre atti”, scritta in dialetto agrigentino nel 1916 e poi trascritta e pubblicata in italiano nel 1928. A Pirandello interessava rappresentare il protagonista, che dava il nome alla commedia, Neli Schillaci detto Liolà, “il poeta”, uno spensierato dongiovanni campagnolo, che con il suo comportamento sconvolgeva allegramente l’apparentemente morigerata società in cui viveva.
La commedia, che deriva dal capitolo IV del romanzo “II fu Mattia Pascal” (1904) e dalla novella “La mosca” che apre l’omonima raccolta di “Novelle per un anno”, è priva di complicazioni di tipo intellettualistico e l’attenzione dello spettatore è catturata dalla festosa gioia di vivere di Liolà che fa ruotare il suo cervello come un “firrialoru”, come un mulinello, che vola da un amore ad un altro, che trasgredisce alle regole della società in cui vive, come tutti i personaggi di Pirandello, ma non se ne accorge nemmeno ed alla fine, coerente con le sue idee, viene ferito mortalmente da Tuzza.
Il trio Incudine, Ovadia e Benassai trasforma, col supporto di un cast ben assortito, il testo di Pirandello in uno spettacolo che coinvolge con più espressioni, immagini e forme artistiche che, a tratti, confondono e tra di loro si integrano o si annullano. Il pubblico assiste ad una vera e propria commedia musicale che regala in prevalenza momenti cantati (soprattutto da Mario Incudine, autore delle musiche, tranne di “Ppi ciriveddu haiu un firrialoru” di Nicola Piovani) intervallati da danze, voci sovrapposte di popolane, riflessioni a voce alta e poesia, che contribuiscono a dare allo spettacolo un contesto popolare caotico, allegro, dove emergono oltre al vivace ed amato dalle donne Liolà, un uccello di volo che teme la gabbia e volteggia da un amore all’altro e canta continuamente, scansando scaltro le trappole della restrizione, il rozzo ed interessato ai figli e alla roba zio Simone, la poetica e saggia za Ninfa, mamma di Liolà e che accudisce tutte le sue creature, la za Croce e soprattutto il personaggio, inventato per l’occasione e non presente nel testo originale, di Pauluzzu ‘u fuoddi, sintesi di tutto il pensiero pirandelliano che con le sue parole, i suoi ragionamenti fuori dal coro, sui ventagli, il petto e le donne, sul tempo, invita lo spettatore alla riflessione.
Più che raccontare la trama di un lavoro arcinoto, occorre puntare l’attenzione sulle significative interpretazioni di Mario Incudine nei panni di un brioso e solare Liolà cantante di ottima fattura, di Olivia Spigarelli (una convincente za Croce ruolo interpretato in passato da Rosina Anselmi, Ave Ninchi, Regina Bianchi, Anita Laurenzi), di Angelo Tosto (un don Simone cinico e senza scrupoli, attaccato alla “roba” ed ai figli che non arrivano), di Rori Quattrocchi (la poetica ed incantevole za Ninfa di pregevole fattura), di Paride Benassai (il costruttore di emozioni e di pensieri Pauluzzi ‘u fuoddi, il pazzo del paese), di Aurora Cimino e Graziana Lo Brutto (le ingravidate e rivali Tuzza e Mita), Lorenza Denaro (Ciuzza), Federica Gurrieri (Nedda), Irasema Carpinteri (Mela), Rosaria Salvatico (Luzza) e le popolane Valentina Caleca, Emilie Beltrami, Emanuela Ucciardo, Chiara Spicuglia e Flavia Papa.
La regia, a quattro mani, è di Mario Incudine e Moni Ovadia, di particolare efficacia i musici Antonio Vasta (fisarmonica e zampogna) e Denis Marino (chitarre). Intriganti le movenze marionettistiche, i movimenti coreografici di Dario La Ferla, così come la scena minimalista e mobile, in un non luogo e non tempo, pensata da Mario Incudine, il disegno luci di Giuseppe Spicuglia, i costumi fantasiosi a più dimensioni di Elena Savi che disegnano, tra maschere, balletti e canzoni, in modo buffo e grottesco, la realtà dei personaggi, vere e proprie maschere e marionette che litigano per primeggiare l’una sull’altra. E l’’intera vicenda si chiude, dopo l’improvvisa morte di Liolà, con le sagge e solitarie riflessioni di Pauluzzi ‘u fuoddi che, in fin dei conti, tutto osserva, detta i tempi e ben padroneggia le azioni dei pupi protagonisti.
Lavoro corale, un tripudio di suoni, dialetti, colori che piace al pubblico in sala, nonostante le modifiche apportate nella riduzione e nell’adattamento del testo pirandelliano, con un finale diverso e un gioco di destrutturazione e ricomposizione che sembra cedere il passo a qualcosa di diverso. C’è da dire invece che l’autore è interamente presente, con la valorizzazione di alcuni suoi pensieri cardine come la teorizzazione di un’umanità formata da “pupi” o il gioco delle apparenze.
Reiterati applausi alla fine da parte del pubblico presente in sala per uno spettacolo di grande respiro, per una favola popolare dai mille significati e che con la canzone “Pi ciriveddu haju un firrialoru” di Nicola Piovani e gli altri brani musicati da Incudine consente il recupero di alcune espressioni dialettali autentiche che i giovani ormai sconoscono e che fanno parte del nostro patrimonio storico e culturale da molti ormai dimenticato.
Visto il 4 novembre 2023 al Teatro Vitaliano Brancati di Catania